Foto: Zhao Yangjun/Unsplash
La dieta sviluppata dalla commissione EAT Lancet, pubblicata nel 2019, propone un modello alimentare che tutela sia la salute umana che la salute ambientale, rientrando così a pieno titolo nella definizione di “dieta sostenibile” elaborata dalla FAO (Food and Agriculture Organization of the United Nations). La dieta proposta da EAT Lancet è anche pensata come universale: include, cioè, una serie di caratteristiche e criteri di scelta che – almeno in teoria – sono trasversali alle differenze economiche, ambientali e culturali locali, e che dunque possono essere messi in pratica in ogni parte del mondo.
Uno dei principali meriti che vanno riconosciuti a questo documento è senza dubbio l’aver indicato una via: il rapporto della Commissione EAT Lancet fornisce infatti una soluzione percorribile e scientificamente corretta per sfamare la crescente popolazione mondiale senza superare i vincoli planetari, come invece accade oggi. L’innovazione, in sostanza, consiste nell’aver affrontato la questione della necessaria trasformazione dei sistemi alimentari con un approccio olistico, in grado di tenere insieme – e, auspicabilmente, risolvere in modo congiunto – due grandi temi della nostra epoca: la crisi ambientale e la crisi sanitaria oggi in corso.
Eppure, proprio l’universalità di questa proposta ha attratto numerose critiche: prima fra tutte, la sua scarsa applicabilità. In altri termini, è stato evidenziato come sia difficile adottare su vasta scala la dieta sostenibile elaborata dalla commissione EAT Lancet proprio per via della mancanza di attenzione verso le complesse interazioni tra dimensione globale e locale e verso l’individuazione di strategie per armonizzare gli interessi, spesso confliggenti, dei diversi sistemi coinvolti.
In un articolo comparso sulla rivista scientifica PNAS, un gruppo intercontinentale di ricercatori ha messo in luce la necessità di fare in modo che la trasformazione dell’attuale sistema alimentare globale sia effettivamente realizzabile. Per far sì che ciò avvenga, è essenziale comprendere le condizioni di possibilità dei quattro livelli coinvolti: agricolo, economico, sociale e culturale. Finora – affermano gli autori – le ricerche su questo tema hanno proceduto su piani paralleli, in una compartimentalizzazione che ha rallentato il cambiamento. Ora è il momento di ridurre queste distanze e adottare un approccio realmente interdisciplinare, così da poter colmare le lacune ancora esistenti.
Una delle mancanze della dieta raccomandata da Lancet consiste nel non aver contestualizzato adeguatamente le diete e le abitudini alimentari delle persone. Un primo elemento da tenere in debita considerazione è, in tal senso, il contesto nazionale o regionale all’interno del quale si formano le abitudini alimentari di individui e di intere comunità. Inoltre, se si prendono in esame sia l’impatto ambientale sia i costi in termini di salute umana, risulta chiaro che questi due parametri non sempre coincidono: in diversi casi, al contrario, una dieta di più alta qualità corrisponde a un più alto tasso di emissioni. Il punto è che non esiste una soluzione, ma ne esistono molte, che mutano a seconda di una varietà di fattori esterni concorrenti, dall’ambiente alle condizioni sociali.
Un altro fattore di grande importanza è la dimensione economica del sistema alimentare globale. La crescita economica e la globalizzazione – spiegano gli autori della ricerca – contribuiscono congiuntamente alla ‘transizione nutrizionale’ e ai modelli alimentari ad essa collegati.
In diversi Paesi in via di sviluppo, ad esempio, con l’avanzare della crescita economica si tende ad abbandonare le antiche tradizioni culinarie, spesso considerate troppo umili o obsolete, in favore di un crescente consumo di proteine animali. Non è un buon segno, tanto più che modificare le nostre abitudini a tavola in direzione di una maggiore sostenibilità può rappresentare un tassello importante per ridurre l’impronta carbonica del sistema alimentare tanto nel breve quanto nel lungo periodo, e inoltre può contribuire in modo significativo alla riduzione delle malattie non trasmissibili e, di conseguenza, a migliorare lo stato della salute umana su scala globale. Certamente, perché questo accada bisogna in primo luogo riconoscere che – come rimarcano gli autori della ricerca di PNAS – “non esiste una dieta o un sistema alimentare globale, ma piuttosto esiste una moltitudine di sistemi alimentari locali e di diete individuali”. Ecco perché per rendere sostenibile il sistema alimentare globale non ci si può affidare alle scelte dei singoli cittadini, ma è necessario concentrarsi sugli aspetti ambientali, economici, sanitari e sociali dell’intera catena di produzione e consumo.
È poi di primaria importanza tenere in considerazione la dimensione politica dell’amministrazione dei sistemi alimentari. Con la globalizzazione e l’ampliamento delle catene di approvvigionamento, produzione e consumo, poche grandi compagnie multinazionali si sono affermate come attori di primo piano nella gestione dei sistemi alimentari globali. La tendenza delle grandi aziende del settore alimentare a privilegiare il profitto economico ha portato a una vera e propria rivoluzione nella produzione e nel consumo del cibo: da una parte, infatti, i piccoli produttori e le comunità locali sono ormai dipendenti da tecnologie intensive gestite da un oligopolio globale (si pensi, ad esempio, alla posizione di grande potere delle aziende che commerciano i semi di alcune tra le colture più importanti e redditizie al mondo, come i cereali); dall’altra parte, la costante ricerca del profitto economico ha privilegiato la produzione di cibi ad alta intensità energetica ma poveri di nutrienti, il cui costo di produzione è basso e che, in molti casi, creano dipendenza, assicurandone così il successo sul mercato. Le conseguenze di tali scelte sulla salute della popolazione mondiale sono ormai evidenti: i cibi più sani da un punto di vista nutrizionale sono meno accessibili per le fasce della popolazione più deboli da un punto di vista socioeconomico, che dunque fanno largo consumo di prodotti che hanno effetti negativi sulla salute, aumentando l’incidenza delle malattie non trasmissibili (disturbi cardiocircolatori, diabete, obesità, tmori).
Per non superare alcuni punti critici per la tutela della salute umana e ambientale è necessario realizzare “un reset culturale ed economico che vada oltre gli interessi locali, nazionali e regionali a breve termine”, sostengono i ricercatori. La responsabilità del miglioramento del sistema alimentare globale non può pesare sui singoli individui: le grandi aziende che sono state protagoniste della trasformazione di questo settore devono essere chiamate a rispondere delle proprie azioni passate e ad assumersi la responsabilità del ruolo di primo piano che oggi ricoprono. È compito della politica colmare il divario di potere tra i cittadini e questi grandi attori economici, e per farlo i governi devono ridurre le libertà economiche di cui finora il settore privato ha goduto, privilegiando invece la tutela della salute pubblica, tanto umana quanto ambientale.
Dunque, le riforme del sistema alimentare non possono più considerare la sostenibilità ambientale e la salute come esternalità economiche (come è stato finora), ma devono riconoscere questi ambiti come condizioni di possibilità e fini ultimi del sistema stesso. Si tratta di realizzare, innanzitutto, un cambiamento di mentalità: è necessario – asseriscono gli autori dello studio – concordare un nuovo contratto sociale.
“ Le aziende hanno il potere, i decisori pubblici hanno la responsabilità, i cittadini il diritto di godere di alimenti eticamente responsabili ed economicamente accessibili in quanto bene comune. S. Biesbroek et al. (2023) Toward healthy and sustainable diets for the 21st century: Importance of sociocultural and economic considerations. PNAS 120, 26:e2219272120
“Il successo della trasformazione alimentare dipende in modo critico dai meccanismi sociali vòlti a limitare il potere delle imprese nella misura in cui questo contrasti l’interesse pubblico in materia di salute e ambiente. I cittadini e le organizzazioni private devono assumere la responsabilità verso l’ambiente e implementare abitudini, politiche e strategie che migliorino il sistema alimentare. Tuttavia, è prima di tutto responsabilità dei governi guidare questa trasformazione, anche attraverso organizzazioni che impongano agli attori economici la trasparenza. Questi ultimi, dal canto loro, dovranno rendere conto della realizzazione di miglioramenti tangibili in ambito agricolo, nelle catene di approvvigionamento, sul fronte della giustizia, dell’accesso al cibo e nello sviluppo di un ambiente alimentare sano”.
Il “nuovo contratto sociale” richiede dunque una rivoluzione dei rapporti di potere affermatisi negli ultimi decenni: l’eccessiva libertà accordata finora ai grandi attori economici è incompatibile con la tutela del bene comune, e mettere in discussione questo paradigma, finora dominante, è oggi una questione esistenziale. Il bene comune – in questo caso, salute umana e, soprattutto, preservazione dell’ambiente naturale, che è condizione di esistenza della nostra specie – deve essere tutelato in modo prioritario: non può essere altrimenti.