SOCIETÀ

La pandemia ha messo in risalto ancora una volta le grandi disparità socio-economiche

“Nessuno è al sicuro finché tutti non sono al sicuro”. Una frase, quella di Tedros Adhanom Ghebreyesus, capo dell'Organizzazione mondiale della sanità, che suona come un monito.

Vale per la prevenzione, per la cura e anche per quanto riguarda la campagna vaccinale. Proprio su quest’ultima sappiamo che, ad oggi, nel mondo circa il 75% delle dosi di vaccino prodotte è finito in soli dieci Paesi. La campagna è appena iniziata, la produzione è indubbiamente sotto stress e fortunatamente esistono dei progetti, come Covax, per portare il vaccino anche nelle aree più povere. Il tema però è di fondamentale importanza perché finché tutti non sono al sicuro, nessuno lo sarà.

In tutte le analisi che si fanno sulla pandemia, ci si accorge che il comun denominatore è sempre l’aumento delle disuguaglianze. Paradossalmente è come se il Covid avesse acceso una luce enfatizzando ciò che c’era già ma che spesso si cercava di non vedere. Il monito “nessuno è al sicuro finché tutti non sono al sicuro” dev’essere un costante riferimento sia a livello globale, dove abbiamo visto che esiste un’enorme disparità di accesso ai vaccini, sia a livello locale all’interno dei singoli Stati. La demografia per quanto concerne la pandemia è fondamentale, sia dal punto di vista medico che sociale.

È proprio su quest’ultimo fattore che vogliamo concentrarci per capire come la pandemia abbia colpito di più alcune minoranze. Quando diciamo “colpito” intendiamo non solo il punto di vista sanitario, ma anche con ripercussioni sociali, lavorative, d’accesso alle cure ed ai vaccini. La situazione che è interessante analizzare per cercare di capire anche le singole differenze all’interno di un Paese è quella degli Stati Uniti. 

Sappiamo, grazie all’APM Research Lab, che i nativi americani negli ultimi mesi hanno avuto un incremento di decessi che li ha portati ad avere un morto ogni 475 persone (210.6 morti per 100,000). Gli afro-americani, al 2 febbraio scorso, avevano un decesso ogni 645 persone, mentre gli americani bianchi uno ogni 825. Il Covid-19 quindi negli Stati Uniti sta uccidendo i nativi americani ad una velocità quasi doppia rispetto ai bianchi americani.

Le comunità del Mississippi, del New Mexico, dell'Arizona, del Montana, del Wyoming e del Dakota sono state le più colpite, con un tasso anche superiore ai 700 decessi ogni 100mila abitanti. Le cifre quindi mostrano una situazione chiara e di estrema difficoltà nelle comunità minori. Come riporta il The Guardian, sembra inoltre “che le varianti del virus debbano ancora prendere piede, e quindi la situazione, che ha già avuto un impatto devastante sulle comunità native, potrebbe peggiorare”.

Il mese peggiore, per quanto riguarda i decessi negli Stati Uniti, è stato gennaio, con un aumento dei morti tra i nativi americani superiore del 35% rispetto a dicembre. Una crescita questa, ben lontana da quella delle altre comunità. I decessi tra i bianchi infatti, sono stati superiori del 10% rispetto al mese precedente.

“Non solo i nativi americani hanno il più alto tasso di morti per Covid-19 - ha dichiarato Andi Egbert, analista dell’APM Research Lab, -, ma il tasso sta accelerando con grandi disparità rispetto agli atri gruppi”. 

In totale le tribù di nativi americani ad oggi riconosciute a livello federale negli Stati Uniti sono 574. Alcune di queste quindi sono state colpite molto duramente dal virus. Un esempio concreto è quello dei Cheyenne del Nord, nel Montana, che fino ad hanno visto morire  circa 50 persone a causa del Covid-19. La popolazione totale è di 5mila persone, che significa che la mortalità del virus è stata ad oggi dell’1%. Facendo un confronto con il totale della popolazione mondiale ad oggi i morti a causa del Covid-19 sono stati superiori ai 2,42 milioni, su un totale di circa 7 miliardi e 800 milioni di persone.

La disparità nelle vaccinazioni

Mentre le differenze e le disparità per quanto riguarda il tasso di mortalità si possono spiegare con diversi fattori, tra i quali l’accesso alle cure, i servizi presenti, la possibilità di avere dispositivi di protezione individuale e la possibilità di praticare il distanziamento sociale, oltre a naturalmente fattori più strettamente demografici, ciò che è più complesso spiegare è la disparità nelle vaccinazioni.

Abbiamo già visto come il 75% circa delle dosi di vaccino prodotte sia finito in soli dieci Paesi, ma anche all’interno di questi esistono delle grosse differenze. Prendendo ad esempio sempre gli Stati Uniti, per avere così una panoramica chiara del fenomeno, vediamo come il gap tra diverse etnie si molto sostenuto.

La prima cosa che balza all’occhio da un’analisi di Associated press, è che gli afroamericani sono stati mediamente vaccinati meno in qualsiasi Stato. Questo nonostante costituiscano una buona percentuale degli operatori sanitari. Il caso concreto possiamo vederlo nel Carolina del Nord, dove i neri costituiscono il 22% della popolazione ed il 26% della forza lavoro sanitaria. Fino ad ora però, la percentuale di vaccinati è dell’11%. Se si guarda la controprova: i bianchi (nella categoria sono inclusi sia bianchi ispanici che non ispanici) sono il 68% della popolazione e l'82% di quelli vaccinati.

Anche in questo caso le motivazioni che hanno portato ad una disparità così elevata partono da lontano. Secondo l’AP uno dei fattori potrebbe essere anche la profonda sfiducia nei confronti dell'establishment medico tra i neri americani. Sfiducia dovuta ad una lunga storia di trattamenti discriminatori. Altri fattori che potrebbero spiegare in parte il gap vaccinale sono l’accesso inadeguato al vaccino nei quartieri a prevalenza afro-americana e un digital divide che rende difficile sia il reperimento di informazioni cruciali che, dove necessario, l’accesso alle piattaforme in cui poter prenotare il proprio vaccino. Le iscrizioni alle vaccinazioni infatti, come avviene anche in alcune regioni italiane e come documentato da Massimo Gaggi sul Corriere della Sera, vengono effettuate in larga scala online, anche se le piattaforme poi differiscono da Stato a Stato.

 

Per quanto riguarda la questione della vaccinazioni, la comunità ispanica sembra non essere particolarmente colpita dalla disparità. "Sembra" perché per ora sono molti gli Stati che non hanno rilasciato i dati. Oltre a ciò bisogna anche considerare che gli ispanici negli Stati Uniti hanno mediamente un’età più bassa rispetto alla media nazionale e le vaccinazioni devono ancora essere aperte alle fasce d’età più giovani.

Come si nota dal grafico realizzato da AP, tutti i dati di cui abbiamo parlato riguardo alle vaccinazioni provenivano da: Alaska, Colorado, Delaware, Florida, Indiana, Maryland, Mississippi, Nebraska, New Jersey, North Carolina, Ohio, Oregon, Tennessee, Texas, Vermont, Virginia e West Virginia, oltre a due città, Philadelphia e Chicago.

L'analisi ha quindi rilevato che i bianchi vengono vaccinati seguendo il piano previsto o almeno andandoci il più vicino possibile. Inizialmente negli Stati Uniti, la campagna vaccinale è iniziata dagli operatori sanitari e solo da poche settimane si è estesa anche ad un gruppo più ampio che comprende anziani e lavoratori in prima linea. Questo potrebbe ipotizzare un’ulteriore estensione del gap tra bianchi e afroamericani. Negli Stati Uniti infatti, la popolazione over 65 è maggiormente bianca rispetto ad altri gruppi di età.

Ma quindi sono le etnie le discriminanti di queste differenze? La risposta, come spesso succede, è complessa. Abbiamo visto come inevitabilmente la storia influisca anche nell’accesso alle vaccinazioni, ma ciò che fa realmente la differenza in questo caso è la condizione socio-economica. I due fattori però non sono di certo separati e già nel maggio scorso abbiamo cercato di capire come senza una reale diminuzione delle disuguaglianze, sarà più difficile anche uscire pienamente dalla pandemia. Vale a livello dei singoli Stati, ma vale anche a livello globale tra Paesi ricchi e non. Disuguaglianze che riguardano in egual misura sia la condizione sociale che quella economica. Quest’ultimo fattore infatti non è l’unico da prendere in considerazione.

Harriet Washington su Nature ha messo in luce  come gli afroamericani della classe media, quindi con un reddito tra i 50 ed i 60 mila dollari all'anno, siano esposti a livelli molto più alti di prodotti chimici industriali, inquinamento atmosferico, metalli pesanti e altri agenti patogeni, rispetto ai bianchi che possono essere considerati poveri, quindi con un reddito annuo di circa 10.000 dollari. Questa disparità esisterebbe sia nelle aree urbane che in quelle rurali. Il razzismo ambientale quindi è un fattore da prendere in considerazione quando si parla di salute in generale, non solo riferito alla pandemia da Covid-19.




 

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