Personale sanitario e pazienti di Covid-19. Foto: Reuters
Li abbiamo chiamati “eroi”, alcuni loro profili sui social network sono diventati punti di riferimento alla pari di quelli dei più rinomati virologi ed epidemiologi d’Italia, li abbiamo raccontati (utilizzando un linguaggio militare che forse non è il migliore da usare, come ha raccontato Giancarlo Sturloni) come i soldati in prima linea contro l’invasione del virus che stava mettendo a ferro e fuoco l’Italia, poi l’Europa e il mondo.
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Sono medici, infermieri, operatori sanitari che hanno faticato in corsia e sul territorio offrendo cure e assistenza alle migliaia di malati di Covid-19, cercando di non lasciare troppo indietro anche tutti gli altri malati che, nel frattempo, non potevano essere abbandonati.
I tre mesi di crisi sanitaria acuta hanno però messo in evidenza che tra il personale sanitario gli infermieri sono stati la categoria più esposta. Lo certificava già a fine aprile il bollettino dell’Istituto Superiore di Sanità: nei primi due mesi della pandemia, gli infermieri e gli ostetrici rappresentavano il 47,4% dei contagi tra gli operatori sanitari. In termini assoluti sono quasi 10mila infetti su circa 260 mila infermieri a livello nazionale. Complessivamente, i medici tutti rappresentavano il 22% del numero totale dei casi nel settore sanitario.
Secondo quanto afferma uno studio condotto dal Centro Studi di FNOPI, la Federazione Nazionale degli Ordini delle Professioni Infermieristiche, assieme all’Ordine delle Professioni Infermieristiche (OPI) di Bari, al 22 giugno il numero degli infermieri contagiati ha superato quota 14 mila. Gli infermieri sono risultati quindi come una categoria molto esposta, forse la più esposta tra gli operatori sanitari, al rischio di contrarre Covid-19. Come mai? «Gli infermieri sono diffusi in modo capillare», spiega Nicola Draoli, membro del Comitato centrale FNOPI e presidente dell’ordine provinciale degli infermieri di Grosseto. «Gli infermieri sono l’anello più prossimo al paziente nelle strutture ospedaliere: sono loro che sono rimasti accanto ai pazienti». È proprio il lavoro dell’infermiere, per le sue caratteristiche intrinseche, a prevedere un maggior contatto con i pazienti rispetto alle altre figure professionali della sanità e «questo è vero non solo per Covid, ma per qualsiasi situazione».
L’analisi di FNOPI mostra come l’andamento delle infezioni tra gli infermieri ricalchi perfettamente l’andamento dell’epidemia sul territorio nazionale. A numero maggiore di casi, corrisponde proporzionalmente un maggior numero di infermieri contagiati, come mostra la mappa qui sotto: oltre il 61% degli operatori sanitari contagiati si registra in Lombardia, la regione d’Italia più colpita dalla malattia.
Le ragioni: i dispositivi e la latenza
«Sicuramente, nella prima fase dell’emergenza», racconta Draoli, «c’è stato un problema di approvvigionamento dei dispositivi di protezione individuale». Le scorte dei cosiddetti DPI non erano sufficienti a far fronte alle esigenze quotidiane del lavoro degli operatori sanitari. A questo si deve aggiungere anche un certo grado di «incertezza nelle indicazioni sul loro utilizzo: si è cercato di efficientare, perché erano scarsi». A guardare questa fase in retrospettiva, Draoli non può fare a meno di ricordare come ci fossero voci pubbliche, del mondo della politica, ma non solo, che di fronte alla scarsità delle scorte di DPI «dichiaravano che era meglio che niente», dimostrando di non capire quale sia l’importanza di questi dispositivi nel garantire la sicurezza di medici e infermieri.
Durante la prima fase, non era nemmeno del tutto chiaro quale fosse la portata della situazione che si stava creando negli ospedali. «Inizialmente, si ragionava sul fatto che il virus potesse arrivare solamente importato da chi tornava da un viaggio all’estero, soprattutto in Cina. Solo dopo abbiamo capito che il virus stava già circolando sul territorio, ma all’inizio c’è stata una minor attenzione sulle precauzioni».
Le ragioni: pochi infermieri
Nei mesi successivi, un tema su cui si è sviluppato un dibattito pubblico piuttosto vivace è stato il taglio della spesa sanitaria. Si è parlato soprattutto della diminuzione dei posti letto, specialmente di quelli di terapia intensiva. Si è anche raccontato ampiamente del decreto del premier che ha permesso di mettere al lavoro anche i neolaureati in medicina per sopperire alle mancanze. Ma secondo quanto emerso da un’inchiesta del centro di giornalismo investigativo spagnolo Civio, troppo poco si è parlato del basso numero di infermieri attivi nei Paesi dell’Europa meridionale, Italia compresa. Una situazione che ha costretto a lunghi turni, ore di straordinario, accumulo di mansioni, aggravando il peso che questa categoria professionale ha dovuto sopportare.
La mappa mostra un confine invisibile, scrivono Angela Bernardo e Maria Alvarez Del Vayo per Civio, che separa i Paesi del Nord Europa, dove il numero di infermieri ogni mille abitanti è stabilmente sopra quota 10, da quelli del Sud, dove il numero è di molto inferiore: sono 3,3 in Grecia, 5,7 in Italia e 5,9 in Spagna. Questi ultimi due Paesi, inoltre, sono anche due dei più colpiti dalla pandemia durante i primi mesi dell’anno.
Se si guarda al numero degli infermieri in rapporto al numero dei medici, ci si accorge che la situazione continua a essere più difficile proprio per gli stessi Paesi, e in particolare per l’Italia, che non raggiunge il fatidico rapporto di 3 a 1: tre infermieri ogni medico in servizio. FNOPI lo denuncia da tempo: mancano 51 mila infermieri per arrivare a coprire le esigenze del Sistema Sanitario Nazionale, sia sul fronte ospedaliero, sia su quello territoriale. Un loro studio dello scorso anno, confermato anche dalle analisi dell’OCSE riportate dal Quotidiano Sanità, calcolava quanti infermieri dovrebbero essere assunti in ogni regione per garantire il rapporto infermieri/medici. Solo Emilia-Romagna, Friuli Venezia Giulia, Provincia Autonoma di Bolzano e Veneto non dovrebbero correre ai ripari.
La carenza di personale ha costretto ad «anticipare sessioni di laurea, richiamare in servizio infermieri in pensione», dice Draoli, facendo emergere il tema delle competenze. «Gli infermieri oggi non sono una figura ancillare rispetto al lavoro del medico, di cui eseguono gli ordini. Sono professionisti con competenze specifiche, ma non sono cellule totipotenti, che puoi mettere ovunque». All’interno del mondo infermieristico se ne sta già parlando: serve una differenziazione di curricula, una specializzazione. «Non vogliamo arrivare alla frammentazione dei medici, ma c’è bisogno di pensare a una rimodulazione delle competenze», suggerisce Draoli.
Il ruolo del territorio e il futuro
La riduzione dei posti letto ospedalieri degli ultimi anni doveva essere accompagnata dal potenziamento dei servizi territoriali, che «è da sempre il tallone d’achille del Sistema Sanitario», spiega Draoli: «se guardiamo i LEA territoriali (i Livelli Essenziali di Assistenza, indicatori della qualità del servizio erogato, NdR), ci sono 10 regioni che non raggiungono livelli sufficienti». Come a dire che la mancanza dell’investimento sulla sanità territoriale ha permesso l’esistenza di contraddizioni per cui gli ospedali di un’area possono essere eccellenti, ma convivere con servizi territoriali inadeguati. Lo si è visto in questa crisi, in cui «dove i servizi territoriali funzionano il sistema ha retto e dove non funzionano, hanno finito per accentrare il peso della pandemia sugli ospedali».
Allo stress di alcune strutture ospedaliere, e di tutto il sistema, si deve aggiungere anche il peso psicologico di questo lungo stato emergenziale. Tra i quaranta decessi di infermieri di questi mesi, persone che sono morte per la malattia provocata da SARS-CoV-2 o da patologie favorite da questo virus, si contano anche quattro infermieri (questi ultimi, comunque tutti positivi) che hanno deciso di togliersi la vita. Indagare le ragioni di una scelta così personale è probabilmente al di là delle capacità di chiunque. Rimane da fare i conti con l’affaticamento psicologico e un vero e proprio stress post-traumatico. Fin dall’inizio dell’emergenza, in ordine sparso, sul territorio sono stati avviati dei servizi di sostegno psicologico per gli operatori sanitari, che però sono risultati più utilizzati dopo la fase acuta. «C’è un carico di stress post-traumatico diffuso nella categoria, anche indipendentemente dall’essere stati contagiati in prima persona», spiega Draoli. «Tre mesi di questo tipo di stress hanno messo a rischio di burnout molti colleghi». FNOPI sta lavorando per raggiungere un accordo con l’Ordine degli Psicologi per un programma di sostegno per i propri iscritti.
Rimane da vedere come procederanno i cambiamenti dell’organizzazione territoriale della Sanità previsti dal cosiddetto DL Rilancio. Si prevede l’introduzione della figura dell’infermiere di famiglia e di comunità, proprio cercando di potenziare il territorio. Secondo quanto riportato da IlSole24Ore, le assunzioni dovrebbero essere 9600. Siamo ancora lontani dai numeri necessari per riequilibrare il sistema nel suo complesso, ma potrebbe essere l’inizio, sotto la spinta dell’emergenza che stiamo vivendo, a pensare in modo diverso a come gestire la sanità dalla Sicilia all’Alto Adige.