SCIENZA E RICERCA

La protezione ambientale è vantaggiosa, anche economicamente

Transizione verde, protezione dell’ambiente, scienza ecologica: questi temi, fino a poco tempo fa relegati negli ambiti dell’attivismo o della ricerca accademica, sono finalmente al centro del dibattito pubblico. Gli effetti della crisi climatica sono ormai evidenti anche agli occhi dei più riluttanti ad accettarne la realtà, e si impone – tanto a livello individuale quanto sul piano sociale e politico – un ripensamento dei nostri modi di vita e dei modelli di sviluppo della società.

Fra le molte soluzioni possibili, pare che a riscuotere maggiori successi sia la realizzazione di una lenta e graduale trasformazione del sistema economico, il cui obiettivo non è sconvolgerne logiche e assunti fondanti ma che, piuttosto, punta a ridurre – compatibilmente con la crescita e l’espansione dell’economia, mete mai messe in dubbio – le cosiddette “esternalità”, cioè gli impatti negativi sull’ambiente causati dalle attività umane.

Fra coloro che studiano i rischi, le potenzialità e i mezzi per la transizione verso la sostenibilità, uno dei più accesi dibattiti riguarda, in effetti, la portata del cambiamento che deve essere messo in atto: alcuni sostengono che il mutamento dovrà essere incrementale, altri, al contrario, che dovrà essere trasformativo. I primi mirano a scongiurare l’eventualità che un mutamento troppo brusco possa determinare il crollo di un sistema estremamente complesso e interconnesso come è quello dell’economia globalizzata; i secondi, d’altra parte, sottolineano la gravità e la rapidità della crisi climatica e ambientale, e sostengono, di conseguenza, che, per non superare i famigerati “punti di non ritorno” oltre i quali il mutamento sarebbe, con ogni probabilità, inarrestabile, l’impatto dell’uomo sulla natura debba essere ridotto drasticamente, e nel minor tempo possibile.

Un mutamento incrementale, in altri termini, comporterebbe l’adozione di provvedimenti, più o meno marginali, che non intaccherebbero il “cuore” delle funzioni economiche, permettendo così, nel lungo periodo, di adeguare il sistema alle nuove esigenze di sostenibilità. A questo genere di approccio, tuttavia, si potrebbe contestare una certa miopia, nella misura in cui non riconosce la necessità di un rinnovamento in primo luogo teorico.

L’economia neoclassica, infatti, ha fallito nel prevedere e nell’affrontare la crisi climatica antropogenica proprio perché ha eliminato dai suoi calcoli di costi e benefici la dimensione naturale, e ha considerato il mondo delle attività umane come un sistema chiuso e autosufficiente. Le esternalità (ambientali, ma anche sociali) della produzione economica ci sono sempre state, ma, fino a poco tempo fa, erano semplicemente ignorate. Inserire i costi ambientali nelle valutazioni economiche e assegnare alla natura un valore quantificabile sono misure che consentono, invece, di elaborare stime più realistiche su cui basare decisioni economiche e politiche.

Il ripristino ecologico delle zone agricole: un caso di studio

Incorporare il valore della natura nei calcoli economici è esattamente quanto ha fatto un gruppo di ricercatori inglesi in uno studio pubblicato dalla rivista Plos One, nel quale sono stati presentati i risultati di una ricerca che, attraverso l’analisi di un piccolo caso di studio, è riuscita a dimostrare – dati alla mano – l’importanza delle politiche di protezione ambientale, quantificando proprio il vantaggio economico ad esse correlato. I ricercatori, infatti, hanno ipotizzato una serie di scenari legati allo sviluppo futuro (periodo 2015-2050) delle pratiche agricole e della destinazione d’uso dei terreni nella contea del Dorset, nel sud dell’Inghilterra. Oltre ad un modello business as usual (BAU), in cui l’attuale tasso di sfruttamento delle risorse agricole rimane inalterato nel periodo considerato, vengono messe a confronto situazioni opposte: in un caso si mira ad aumentare ulteriormente, rispetto alla situazione attuale, la produttività, determinando un incremento dei terreni destinati all’agricoltura; nell’altro, al contrario, si opta per una diminuzione delle pressioni sull’ambiente e si riduce l’areale dei terreni agricoli, favorendo la ricostituzione dei precedenti habitat naturali.

Gli studiosi hanno valutato gli impatti economici dei diversi scenari e hanno dimostrato come, usando parametri differenti, i risultati cambiassero significativamente. Se, infatti, valutando le politiche di ripristino ecologico in base a un sistema unicamente economico, queste sembravano determinare perdite nette, una volta inseriti fra i parametri di valutazione anche il valore degli ecosistemi e i costi derivanti dalla perdita dei servizi da essi forniti il vantaggio (anche economico) di questi provvedimenti di protezione ambientale diveniva evidente. In un regime di gestione sostenibile delle risorse, infatti, i servizi ecosistemici crescono in diretta proporzione con il benessere degli ecosistemi stessi, offrendo quindi un vantaggio diretto alle società umane, che dei servizi ecosistemici non possono fare a meno.

La ricerca inglese offre un interessante punto di vista sull’importanza dei servizi ecosistemici e del capitale naturale per il settore economico: nonostante siano spesso invisibili – non è raro che vengano erogati da aree naturali remote, selvagge, considerate non produttive –, i servizi ecosistemici hanno un ruolo essenziale nell’economia globale, poiché non solo forniscono le risorse (acqua, cibo, energia, materie prime) necessarie alle attività umane, ma supportano la vita e ne rendono possibile la prosecuzione. Se applicato alla gestione dei terreni agricoli, questo assunto pone in evidenza i numerosi vantaggi che deriverebbero da politiche di ripristino ecologico e di rinaturalizzazione di aree fortemente sfruttate: il guadagno economico perduto nel breve periodo, infatti, sarebbe ampiamente compensato da un più ricco e stabile flusso di servizi ecosistemici.

L’intervista completa a Tiziano Distefano. Servizio di Sofia Belardinelli, montaggio di Elisa Speronello

Oltre il riduzionismo economico: l’economia ecologica

Sul riconoscimento e la valorizzazione di questo profondo legame fra benessere ambientale e prosperità umana si concentra l’economia ecologica, branca piuttosto recente (nata ufficialmente negli anni ’80 del secolo scorso) e ancora oggi minoritaria dell’economia che nasce proprio con l’obiettivo di ricomporre l’artificiale divisione, operata dall’economia classica e neoclassica, fra la sfera economica e la dimensione naturale. Come spiega Tiziano Distefano, economista e ricercatore all’università di Pisa, l’economia ecologica nasce proprio per rispondere alla necessità, avvertita ormai da più parti, di un cambiamento di paradigma nella teoria economica: «La crescita economica è la misura monetaria delle attività che vengono svolte: il paradigma della crescita impone la monetarizzazione e la creazione di mercati anche per attività di per sé prive di un valore economico in senso stretto. Questo comporta, oltre a trasformazioni nei rapporti sociali, anche una modificazione della mentalità, laddove i valori predominanti non sono più di matrice etica, ma prettamente economici. Ma un modello fondato esclusivamente su valori economici, che persegua una crescita esponenziale e, in linea di principio, infinita, non può essere realizzato, in un mondo intrinsecamente finito, se non al costo di gravi effetti indesiderati. L’economia ecologica, riconoscendo a determinati beni – tra cui la natura – un valore ulteriore rispetto a quello meramente monetario, rifiuta il riduzionismo economico della teoria classica e vi sostituisce la complessità delle interazioni fra sistemi tra loro differenti e, in una certa misura, incommensurabili, come la sfera economica e quella ecologica».

«L’economia ecologica, dunque, muove da questa complessità – prosegue Distefano – per individuare soluzioni che siano in grado di rispondere simultaneamente ai diversi problemi e alle diverse esigenze in competizione, consapevole del fatto che l’interdisciplinarietà è una caratteristica essenziale e ineliminabile nell’analisi dei rapporti fra il mondo umano e il resto del mondo naturale, all’interno del quale il primo è inserito. Il sistema attuale, è vero, è profondamente legato all’impianto economico e produttivo, tanto che, oggi, la maggior parte delle politiche adotta, come metro di valutazione, parametri unicamente quantitativi, come il PIL: per uscire da questa impasse, abbiamo bisogno di individuare alternative che siano credibili ma che, al tempo stesso, inaugurino un percorso che svincoli il miglioramento della qualità della vita, la realizzazione dell’equità sociale, del benessere ambientale e, in generale, lo sviluppo umano dal processo economico orientato unicamente all’espansione dei mercati e all’aumento del profitto».

In una visione illuminata dalle teorie dell’economia ecologica, appare evidente come un approccio esclusivamente economico non sia sufficiente per affrontare le sfide lanciate dalla crisi climatica – prime fra tutte, l’individuazione, in breve tempo, di misure di mitigazione e adattamento che facciano della transizione ecologica, nei prossimi anni, non più uno slogan ma una realtà. Provvedimenti quali il ripristino ecologico, che comporta una riduzione dei profitti nel breve termine in vista di un vantaggio più esteso nel tempo e più ampio in termini di potenziali beneficiari – le generazioni future che potranno godere di quei servizi ecosistemici, i viventi non umani la cui sopravvivenza dipende da quell’ambiente –, sono un esempio del genere di azioni necessario per navigare nell’Antropocene: se l’economia non è che un sottosistema della biosfera, se l’uomo non è che un membro della comunità naturale, allora politica, economia ed etica possono collaborare, poiché il loro obiettivo è comune.

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