La transizione verso un’economia decarbonizzata, resa urgente dalla emergenza climatica in corso, pone una serie di problemi generalmente sconosciuti o sottovalutati. Come tutte le attività umane, in particolare considerando i megatrend del 21° secolo, quali l’aumento della popolazione (l’ONU prevede 9,8 miliardi per la metà secolo) e il fenomeno dell’inurbamento (sempre l’ONU prevede che nel 2050 il 70% della popolazione vivrà in arre urbane e vi saranno oltre 40 megacittà con più di 10 milioni di abitanti), anche la transizione energetica avrà il suo impatto sul pianeta. Considerando che globalmente circa l’85% dell’energia primaria deriva dai fossili, per raggiungere verso il 2050 il 45% di elettricità nell’offerta di energia, la produzione elettrica dovrà più che raddoppiare, un valore di cui la quota fotovoltaica ed eolica rappresenterà circa due terzi. Questo megatrend nella produzione e nel consumo di energia richiederà una vasta gamma ed elevate quantità di minerali da cui estrarre gli elementi indispensabili alle moderne applicazioni elettroniche, che si avvalgono dell’uso di una gran varietà di elementi chimici. La fabbricazione di un chip di computer richiede ben 44 elementi diversi. Un touch screen ha bisogno di un film sottile di ossido di indio; i capacitori usati in elettronica richiedono tantalio; i magneti permanenti di vario tipo, che vanno dai sottili altoparlanti dei telefoni cellulari agli enormi magneti delle turbine eoliche, necessitano di neodimio. Le batterie agli ioni di litio contengono anche cobalto e grafite.
Fino alla seconda metà del ventesimo secolo, la tecnologia utilizzava solo una piccola parte degli elementi e di conseguenza la loro disponibilità non rappresentava un problema degno di analisi. Fu la guerra civile (1960-1964) nella Repubblica Democratica del Congo (RDC) che, causando una temporanea indisponibilità del cobalto, portò alla ribalta il problema dell’approvvigionamento delle risorse minerali. Il paese africano possiede due terzi delle riserve del “metallo blu”. Tuttavia, sebbene sia il primo produttore mondiale, con 100.000 tonnellate prodotte nel 2019, la RDC fatica svilupparsi e a modernizzare la propria infrastruttura mineraria. Infatti, la Repubblica Popolare Cinese detiene quasi il monopolio della raffinazione del cobalto, pur avendo prodotto nel 2019 appena 2000 tonnellate (il secondo paese produttore è stata la Russia, con 6100 tonnellate). Nel tentativo degli Stati Uniti e del Canada di affrancarsi strategicamente e di ridurre il proprio grado di dipendenza dalla Cina, nel 2021 dovrebbe entrare in funzione a Toronto (Ontario) la più grande raffineria di cobalto dell’America del nord. Rimarrà tuttavia l’incognita se il minerale continuerà a provenire dai giacimenti della RDC, dove il 20% della produzione viene da attività artigianali più o meno legali, in cui 200.000 giovani minatori lavorano con strumenti rudimentali senza un minimo grado di sicurezza, nonostante il lavoro minorile sia (solo ufficialmente) proibito.
Fonte: https://www.ngu.no/nyheter/rapport-det-gr-nne-skiftet
Recentemente, il rallentamento dell’esportazione degli elementi del gruppo delle terre rare da parte della Cina ha causato una serie di problemi e di preoccupazioni nei paesi ad economia più avanzata. Si è pertanto cominciato a parlare di “elementi critici”. Oltre al cobalto, il Congo possiede circa l’80% delle riserve mondiali di coltan. Dopo l’uso nelle leghe con punto di fusione elevato e anticorrosione (acciai inox), questo minerale è un componente fondamentale dei chip di qualsiasi apparecchio elettronico, in quanto serve ad ottimizzare la durata della batteria e quindi a risparmiare energia elettrica. In realtà non è un minerale, ma una miscela di due minerali facenti parte della classe degli ossidi, la columbite e la tantalite, che come tali sono molto rari. Il primo contiene l’elemento niobio, il secondo il tantalio. Il coltan si trova generalmente in masserelle di colore nero ed aspetto metallico, con elevato peso specifico, all’interno di filoni pegmatitici delle rocce granitiche. Per erosione e trasporto si concentra in sabbie che costituiscono dei giacimenti sfruttabili (placerssedimentari).
Nei soli Stati Uniti ogni anno vengono dismessi circa 130 milioni di cellulari, che collettivamente pesano circa 14 mila tonnellate e contengono quasi 2100 tonnellate di rame, 46 tonnellate di argento, 3,9 tonnellate di oro, 2 tonnellate di palladio e 40 chilogrammi di platino.
Rispetto il contenuto di rame, la quantità richiesta degli altri elementi sopra elencati è molto più piccola. Bastano quindi poche miniere per assicurare la produzione. Tuttavia, questo rappresenta un rischio, una miniera non si improvvisa e queste materie prime, che spesso hanno anche un basso tasso di riciclo, vengono definite “critiche”. Questa definizione non è però semplice, in quanto non dipende solamente dall’abbondanza geologica, ma anche dalla possibilità di utilizzare un sostituto, dallo stato della tecnologia per l’estrazione, dalla localizzazione geopolitica delle riserve, dalla normativa dei paesi, dalla stabilità dei governi, ecc. Uno degli approcci più riusciti definisce come critici i metalli e metalloidi che possiedono tre caratteristiche: 1) di essere del tutto o in gran parte un sottoprodotto, 2) di essere usati in piccole quantità per applicazioni molto specializzate ed infine 3) di non possedere dei sostituti.
Ad esempio, le riserve geologiche di oro sono abbondanti, ma l’impatto ambientale della sua estrazione è elevato e il rischio di restrizioni nell’approvvigionamento è elevato, a causa del suo uso universale in elettronica, oltre che in gioielleria e come forma di investimento. Inoltre, mancano dei sostituti. Più o meno lo stesso succede per il platino, le cui riserve sono in più concentrate dal punto di vista geopolitico. Entrambi questi metalli, oro e platino, rappresentano quindi un particolare motivo di criticità. Dal punto di vista del rischio approvvigionamento, metalli importanti nell’elettronica e nella tecnologia fotovoltaica sono l’indio, l’arsenico, il tallio, l’antimonio, l’argento ed il selenio. Rispetto alla mancanza di sostituti, la criticità riguarda il magnesio, il cromo, il manganese, il rodio e parecchie delle cosiddette “terre rare” (soprattutto europio, disprosio, erbio, facenti parte del gruppo di 15 metalli detti lantanoidi, più scandio e ittrio). È sorprendente apprendere che una moderna turbina eolica di grandi dimensioni contiene circa una tonnellata di terre rare, mentre un cacciabombardiere F35 ne contiene (solo) la metà.
Un problema relativo alle terre rare è che questi elementi non si trovano isolati, ma mescolati tra loro, avendo una elevata affinità chimica. Le applicazioni delle terre rare però necessitano di elevata purezza dei singoli elementi. Ciò comporta l’uso di processi di separazione complessi e costosi, tramite uso massiccio di solventi e di grandi quantità di acqua e di vapore, nonché di composti chimici. La produzione inizia in miniere a cielo aperto secondo tecniche convenzionali. Rocce granitiche alterate o rocce magmatiche particolari denominate carbonatiti vengono estratte e frantumate. I blocchi vengono macinati e il minerale concentrato meccanicamente con metodi fisici come la gravità o la separazione magnetica, talora in associazione con la flottazione (galleggiamento tramite schiume) in bacini d’acqua. Seguono la dissoluzione chimica e la precipitazione di ossidi di terre rare. La possibilità di contaminazione dell’ambiente è elevata anche per l’esistenza di diffuse attività illegali, che non vanno troppo per il sottile.
Secondo il servizio geologico statunitense (USGS), più del 97 per cento delle miniere attive e il 48 per cento delle riserve conosciute si trovano in Cina. Considerando che praticamente tutte le apparecchiature elettroniche contengono piccole quantità di terre rare, l’importanza strategica richiede di affrancarsi dalla dipendenza trovando nuove riserve o riaprendo vecchie miniere. Tuttavia, un’alternativa può essere il riciclo delle apparecchiature scartate, un’attività che potrebbe generare molti posti di lavoro, utilizzando i depositi di rifiuti elettronici come nuove miniere e nel contempo attenuando la pressione ambientale sia delle miniere sia dei depositi di rifiuti. Senza dimenticare però che il recupero di un materiale o elemento non può mai essere completo, ad ogni passaggio se ne perde una parte, ed è un’operazione energivora.
L’Antropocene è un predicament, non un problema
La transizione energetica è resa urgente dalla crisi climatica, la quale è solo uno dei vari limiti planetari superati con l’Antropocene e individuati dal Centro per la Resilienza dell’Università di Stoccolma. La nuova epoca geologica chiamata Antropocene non è un problema, bensì è stata definita un predicament (situazione spiacevole, difficile o pericolosa, da Concise Oxford Dictionary). Infatti, un problema può essere risolto, spesso usando un singolo strumento fisico o concettuale prodotto da esperti in un singolo campo del sapere. Un predicament è una situazione nuova e senza precedenti, che richiede risorse di vario tipo. Non possiamo risolvere un predicament, ma solo continuare al meglio delle nostre possibilità, in questo caso abbandonando il paradigma della crescita continua oramai divenuto pericoloso in un pianeta che abbiamo cambiato e che sta diventando sempre più inospitale.
Alla luce dei dati sopra esposti è facile prevedere che nei prossimi anni vedremo un incremento delle attività di esplorazione e di produzione di minerali necessari a fornire i mattoni della Nuova Età della Pietra, che è già stata definita Età della Pietra Verde. La crescita economica dei paesi in sviluppo ma anche la transizione energetica a tecnologie “verdi” implicheranno verosimilmente una continuazione degli impatti ambientali globali, come deforestazione, perdita di biodiversità e inquinamento delle acque. Non mancheranno fenomeni di opposizione delle popolazioni interessate, come sta avvenendo in Portogallo, a proposito del progetto di una miniera a cielo aperto di litio. Due aspetti questi da tenere in considerazione, per non creare illusioni di facili soluzioni a una situazione complessa.