SCIENZA E RICERCA
I danni irreparabili di Trump a ricerca, clima e salute pubblica

Il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump. Foto: Reuters
Già nel 2016, quando Trump si insediò per la prima volta alla Casa Bianca, le maggiori riviste scientifiche mondiali, Nature, Science, ma anche Scientific American e altre ancora, presero posizione contro il candidato repubblicano già durante la campagna elettorale. Fu un fatto del tutto inedito, mai capitato prima: la scienza di solito non si schiera in politica.
Le riviste scientifiche, che sono anche istituzioni scientifiche, hanno invece preso posizione contro Trump dicendo che una sua elezione avrebbe causato danni a lungo termine alla ricerca scientifica di cui gli Stati Uniti sono stati leader mondiali almeno dalla seconda metà del Novecento in avanti. Gli Usa investono più del 3% del proprio Pil (il più alto al mondo) in ricerca e sviluppo. Per raffronto l’Italia investe l’1,4% del proprio Pil, che è 10 volte più piccolo di quello statunitense.
Breve parentesi storica: quasi alla fine della seconda guerra mondiale, ormai a giochi fatti, nel 1944 il presidente Franklin Delano Roosvelt recapitò una lettera a Vannevar Bush, consigliere scientifico del presidente e coordinatore del progetto Manhattan che portò gli Stati Uniti a sviluppare l’arma atomica. Gli chiese come far sì che la scienza e la tecnologia potessero venire applicate al meglio per il benessere della società. Bush (che non era imparentato con i successivi presidenti degli anni Novanta e Duemila) rispose a sua volta con una lunga lettera intitolata Science, the endless frontier, la frontiera infinita della scienza.
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Secondo Pietro Greco, giornalista scientifico mancato a fine 2020 ed ex capo redattore de Il Bo Live, quel breve saggio di Bush gettò le basi per il modello economico di sviluppo di tutto il dopo guerra: lo chiamava il manifesto dell’economia della conoscenza, cioè di un’economia basata su una costante innovazione.
Per avere costante innovazione occorre investire stabilmente in ricerca, soprattutto quella di base. In quel testo veniva delineato quel concetto che oggi chiameremmo sovranità tecnologica, ma che sarebbe più appropriato chiamare sovranità scientifica: un Paese avanzato non può dipendere dall’estero per componenti essenziali non solo delle tecnologie che impiega, ma anche e soprattutto non può dipendere dall’importazione di conoscenza, che poi viene applicata per sviluppare nuova tecnologia e creare valore economico aggiunto. Un Paese che voglia essere al passo con il XX secolo, e ancora di più oggi con il XXI secolo, deve assegnare alla scienza e alla ricerca un ruolo centrale nell’architettura socio-economica.
Nel 1950 negli Stati Uniti nacque quindi la National Science Foundation (NSF), che per 75 anni è stato il principale organo di finanziamento pubblico della ricerca di base negli Stati Uniti. Nel 2022 con Biden era stato approvato il Chips and Science Act, che prevedeva di supportare una filiera domestica dei semiconduttori, essenziali alla sovranità tecnologica digitale, e di raddoppiare in 5 anni il budget della NSF, essenziale alla sovranità scientifica.
Nel suo discorso al Congresso, lo scorso 4 marzo, Trump ha detto di volersi sbarazzare del Chips and Science Act. Secondo il tycoon i dazi convinceranno i produttori a spostare la loro produzione negli Stati Uniti, senza dover sborsare soldi pubblici. Non ha invece fatto alcun riferimento ai tagli all’NSF, da cui dipende la ricerca di base statunitense, a eccezione di quella biomedica.
Quest’ultima infatti è finanziata dal National Institute of Health (NIH), che a febbraio ha già visto il licenziamento di circa 1.200 dipendenti e che ora, come ha rivelato Nature, si prepara a bloccare i finanziamenti a tutti quei progetti di ricerca che in qualche modo supportano azioni di diversità, equità e inclusione (DEI), ora bollate come proibite dalla destra di governo americana. La guerra culturale all’inclusione delle minoranze si allea con quella alla ricerca, vista come uno spreco di fondi pubblici, soprattutto quella di base, ma non solo.
Clima e ambiente
A fine febbraio sono stati licenziati anche 800 lavoratori della National Oceanic and Atmospheric Administration (NOAA), un’agenzia che si occupa di studiare il clima, il meteo, gli oceani, che monitora la formazione degli uragani e l’andamento della pesca. I dati raccolti servono non solo agli Stati Uniti ma a tutta la comunità scientifica internazionale. Non solo climatologi hanno perso la propria posizione lavorativa da un giorno all’altro, addirittura il governo ha oscurato siti che contenevano dati climatici già raccolti. Alcuni ricercatori, in un atto che si potrebbe definire di resistenza scientifica, hanno scelto di salvarli clandestinamente su altri supporti per sottrarli all’oblio.
Oltre a essersi ritirati dall’accordo di Parigi, gli Stati Uniti non hanno nemmeno partecipato all’ultima riunione dell’IPCC (Intergovernmental Panel on climate change), che avrebbe dovuto decidere la data della pubblicazione del prossimo rapporto di valutazione sul clima. Un consenso non è stato trovato e la decisione è stata rimandata.
Non solo: la Nasa ha anche cancellato un contratto di supporto tecnico e amministrativo con l’IPCC, segno che gli Usa potrebbero arrivare a rescindere ogni legame con il gruppo intergovernativo sui cambiamenti climatici.
La lista delle picconate alle agenzie governative che utilizzano le conoscenze scientifiche per far funzionare la società potrebbe proseguire ancora a lungo. In nome dell’efficienza governativa, sono stati licenziati quasi 400 dipendenti dell’Environment Protection Agency (EPA) e sono stati bloccati miliardi di dollari destinati a programmi di salvaguardia ambientale e alla ricostruzione di aree colpite da disastri naturali. Il governo mira inoltre a depotenziare la capacità dell’agenzia di porre vincoli alle emissioni di sostanze inquinanti e climalteranti, visti come insopportabili limiti alla libertà economica.
La salute pubblica
Sul fronte sanitario, non sono state risparmiate dalla scure di Elon Musk nemmeno il Center for Disease Control and Prevention (CDC, che aveva coordinato la risposta alla pandemia da Covid-19) e la Food and Drug Administration (FDA, che aveva approvato in tempi record i vaccini contro Covid-19).
Anche l’uscita dall’Organizzazione mondiale della sanità è estremamente preoccupante, soprattutto alla luce del fatto che negli Stati Uniti è in corso una grave epidemia di influenza aviaria che è responsabile di un forte aumento del costo delle uova. Il virus H5N1 si è anche già diffuso tra gli allevamenti di bovini, a indicazione del fatto che ha già fatto il salto dagli uccelli ai mammiferi. A inizio gennaio un uomo che aveva contratto il virus è morto in Lousiana e un’altra sessantina risultavano contagiati. Tuttavia, al momento non vi è evidenza che il virus possa venir trasmesso tra esseri umani.
Inoltre un bambino non vaccinato è morto e più di 250 persone si sono ammalate e di morbillo tra Texas, Oklahoma e New Mexico, in aree dove i tassi di vaccinazione sono bassi, intorno all'82%, mentre occorre almeno il 95% di copertura vaccinale per contenere la diffusione di una malattia infettiva che è tra le più aggressive tra quelle che colpiscono gli esser umani. In passato, il neo direttore del dipartimento della salute, Robert Kennedy jr, ha sostenuto posizioni scettiche nei confronti dell'efficacia e della sicurezza dei vaccini.
In nome di America first, Trump ha anche ordinato di smantellare l’agenzia per il supporto allo sviluppo internazionale (USAID). L’iniziativa aveva incontrato l’opposizione dei giudici federali, che tuttavia sono riusciti a contenere i danni solo parzialmente. Più dell’80% dei programmi dell’agenzia, oltre 5.000, verranno terminati. I 1.000 rimanenti verranno gestiti dal dipartimento di Stato.
Secondo un’analisi di Carbon Brief, tra le conseguenze di questi tagli ci sarà un colpo durissimo alla finanza climatica statunitense, che tramite la USAID supportava progetti di mitigazione, adattamento e risarcimento di danni climatici in molti Paesi vulnerabili al riscaldamento globale. Durante l’amministrazione Biden i fondi climatici statunitensi erano cresciuti di anno in anno, fino a 11 miliardi di dollari nel 2024: un aumento significativo, ma ancora lontano dalle cifre che spetterebbe erogare agli Stati Uniti, che sono il singolo Paese al mondo che ha prodotto più emissioni dalla rivoluzione industriale in avanti. Trump ora decimerà questo contributo finanziario essenziale alla lotta al cambiamento climatico in molti Paesi.
La reazione della comunità scientifica
Con la sua raffica di ordini esecutivi, più di 50, Trump ha innescato un conflitto non solo con la magistratura, che in molti casi ha ravvisato un’esondazione del potere esecutivo rispetto agli argini della legalità e dei diritti, ma anche con la comunità scientifica, che si sta attrezzando a difendere la propria integrità, minacciata non solo dai tagli e dai licenziamenti, ma anche da una vera e propria guerra culturale contro l’indipendenza della ricerca e le istituzioni che la portano avanti, inclusi college e università.
Alcuni scienziati sono talmente pessimisti nei confronti della direzione in cui la ricerca statunitense sta andando che hanno espresso la volontà di cercare lavoro altrove: in Europa, Asia o Australia. La maggior parte invece è disposta a restare e a resistere.
La rivista Science, sta tenendo traccia di come le azioni dell’esecutivo stiano danneggiando la comunità scientifica e a inizio marzo 47 società, organizzazioni e associazioni scientifiche che rappresentano più di 100.000 scienziati hanno scritto una lettera al Congresso degli Stati Uniti, chiedendo ai rappresentanti di prendere “immediati provvedimenti per proteggere e ripristinare la ricerca scientifica essenziale e salva-vita di cui beneficiano le famiglie e le comunità americane. Questa ricerca scientifica è finanziata dalle tasse degli americani, autorizzata dal Congresso e non può venire fermata unilateralmente dal ramo esecutivo”.
Tra le ricerche a rischio, la lettera menziona le cure contro il cancro e quella che permette che il cibo e l’acqua siano sicuri. Tra le categorie più colpite viene evidenziata quella dei giovani ricercatori, che sono stati assunti da poco e che si son visti togliere il lavoro.
Infine, la lettera ricorda la centralità della ricerca nell’economia della conoscenza: “ogni dollaro investito nella National Science Foundation genera circa due dollari in resa economica nelle comunità che circondano l’università e ogni dollaro investito nel National Institute of Health ne genera circa 2,46”.