Recinzioni al confine tra la Serbia e l'Ungheria. Foto: Reuters
I migranti lo chiamano the game, ma è tutto fuorché un gioco: è il tentativo, incessante e ostinato, di provare a raggiungere l'Europa dopo aver affrontato migliaia di chilometri lungo la Balkan Route, uno dei corridoi più affollati dell’Europa dell’Est, piena di esseri umani d’ogni età, tutti in fuga dai loro paesi (Afghanistan, Siria, Iraq, Pakistan, Bangladesh) e tutti in cerca di un futuro da chiamare così. Il che comporta fatiche e rischi d’ogni genere, risalendo per mesi e con ogni mezzo la penisola balcanica, chi dalla Turchia, chi dalla Grecia, e poi Macedonia, Albania, Bulgaria, Serbia, infine Bosnia. La fine della corsa, il collo dell’imbuto, è sempre davanti a un muro, o a una recinzione, comunque un confine blindato verso quella terra promessa che si chiama Europa. Ed è proprio lì che va in scena the game: la straordinaria determinazione nell’inventare e scoprire nuovi percorsi, alla ricerca di nuovi passaggi, fessure invisibili tra le reti, tra i muri, schivando armi e violenze di chi è chiamato a difendere quei varchi, pronti a tutto pur d’impedire ai migranti di trovare oltre confine un futuro migliore. Dieci, venti, cinquanta volte, non importa, si ricomincia sempre daccapo, anche se ogni volta con più ferite, sulla pelle e nell’anima. Ma, come sempre accade quando la difesa dei confini tracciati sulle terre diventa più importante del rispetto degli esseri umani, c’è chi si fa prendere la mano. Come racconta Medecins sans frontieres, che nel suo ultimo rapporto, pubblicato la scorsa settimana, parla non soltanto delle violenze, ma delle umiliazioni, gratuite, verso i disperati che si affollano in Serbia, al confine con l’Ungheria, dunque Unione Europea. La città più vicina è Subotica: nei dieci chilometri che la separano dalla frontiera, può accadere di tutto.
Bambini pestati dalla polizia di frontiera
Il confine tra Ungheria e Serbia è lungo 175 chilometri ed è interamente recintato da una doppia rete di filo spinato alta 4 metri, costellata di sensori che regalano scosse elettriche ai più intraprendenti e presidiata da una divisione indipendente della polizia ungherese chiamata “Cacciatori di frontiera”, che conta circa 4mila uomini ben armati e mal pagati (stipendio lordo mensile di 260mila fiorini, poco più di 650 euro): una combinazione che di solito porta guai. «L’uso indiscriminato della violenza contro gli esiliati al confine tra Ungheria e Serbia è regolare, costante», è il racconto, riportato nel rapporto di Medici senza frontiere, della dottoressa Andjela Marcetic, medico di MSF in Serbia. «Ogni settimana vediamo diverse persone, compresi alcuni bambini, con gravi lividi, ferite profonde e tagli, lussazioni e fratture, spesso su gambe, braccia e talvolta sulla testa. Le ferite che curiamo durante queste visite mediche corrispondono alle testimonianze di queste persone, che descrivono violenti pestaggi per mano della polizia ungherese prima delle deportazioni in Serbia. Sebbene possiamo curare alcune di queste lesioni, siamo anche preoccupati per l’impatto a lungo termine di tali traumi sulla loro salute mentale». Soprattutto sui più piccoli, che spesso arrivano alla fine della Balkan Route senza nemmeno un familiare ad accompagnarli.
Una famiglia di migranti cerca di varcare il confine ungherese. Foto: Reuters
Stando alle testimonianze raccolte da Msf, i pestaggi dei Cacciatori di frontiera contro i migranti sono sistematici e organizzati, come una “catena di smontaggio”, delle forze dei più deboli, della loro ostinazione nel tentare di superare la frontiera. Si va dalle percosse a mani nude a quelle con manganelli o cinture di cuoio, dall’uso di spray al peperoncino ai gas lacrimogeni, dai maltrattamenti alle umiliazioni, alle privazioni dell’acqua e dell’assistenza medica. «Siamo stati portati in un piccolo container bianco tra le recinzioni, con altre 40 persone», ha raccontato a Msf una delle persone curate. «Abbiamo trascorso circa 12 ore in quel container. Ho chiesto di andare in bagno, ma non mi hanno lasciato andare. I poliziotti ungheresi ci hanno spruzzato ripetutamente in faccia spray al peperoncino e anche all’interno del prefabbricato, da una piccola finestra laterale». Da gennaio 2021 – si legge ancora nel rapporto - le équipe mediche mobili di MSF hanno curato 423 vittime di violenze al confine. La maggior parte delle persone curate descrive uno schema che si ripete con drammatica regolarità: percosse, negazione dell’accesso ai bisogni di base e molestie, spesso accompagnate da umiliazioni razziste. Alcune persone affermano di essere state vittime di furto e distruzione di beni, mentre altre sono state costrette a spogliarsi, anche in pieno inverno. C’è anche chi ha denunciato di aver subìto altre forme di umiliazione: in alcuni casi gli agenti sarebbero arrivati a urinare addosso ai migranti fermati, in supremo segno di spregio.
La pretesa di Orbàn: fondi UE per pagare i “Cacciatori di frontiera”
Da un lato la doppia recinzione e i “cacciatori di frontiera” ungheresi, dall’altro la polizia serba, che pattuglia, allontana gli indesiderati dai centri abitati e li smista nei centri di accoglienza. Nel mezzo i migranti, che aspettano il momento giusto, il varco giusto, che si accampano nei boschi e in rifugi di fortuna (ne sono stati scoperti tremila il mese scorso), sotto la supervisione interessata dei “trafficanti” che tra loro si mescolano. Le cronache locali raccontano che il mese scorso, nelle aree a nord di Subotica, nella foresta di Makova Sedmica, c’è stata una sparatoria tra migranti: uno di loro è morto e altri 7 sono rimasti feriti, tra i quali una ragazza di 16 anni: senza nomi, senza patria. Secondo l’ultimo report dell’UNHCR al 31 luglio erano presenti sul territorio della Serbia 7.275 tra rifugiati, richiedenti asilo e migranti, rispetto a 6.313 a fine giugno. «La sparatoria vicino a Subotica, in Serbia, mostra che la pressione migratoria ha raggiunto un nuovo livello di pericolo, con i migranti armati che diventano più aggressivi e violenti», scrive Zoltán Kovács, segretario di Stato per le comunicazioni e le relazioni internazionali del governo ungherese. «La sparatoria è solo il sintomo di un problema molto più grande che è stato ampiamente ignorato da ogni altro membro dell’Unione Europea. Uno degli esiti indiretti della guerra in Ucraina, paese responsabile del 10% della produzione mondiale di grano e del 15% della produzione mondiale di mais, è che la carenza di cibo si può già avvertire nelle regioni più povere dell'Africa e dell'Asia. A causa di queste carenze, un numero crescente di persone sta attualmente intraprendendo il viaggio verso l'Europa, amplificando ulteriormente la sfida migratoria. A sua volta, aumenterà anche la domanda per i loschi servizi dei trafficanti di esseri umani, determinando un drastico aumento del numero di trafficanti di persone attivi ai confini dell'Ungheria. Alcune cifre: nel 2021, le forze di protezione delle frontiere ungheresi hanno catturato circa 400 trafficanti di esseri umani. Intanto, nei primi sette mesi del 2022, ne abbiamo già arrestati 750». L’Ungheria, in soldoni, vorrebbe che l’Unione Europea finanziasse la “battaglia” contro i migranti. Come ha dichiarato il premier ungherese Viktor Orbàn, uno che della lotta ai migranti ha fatto il suo manifesto politico: «I trafficanti di persone e i migranti illegali stanno diventando sempre più violenti e non puoi difenderti dalla violenza con orsacchiotti e mazzi di fiori. Quindi avremo bisogno di alcune migliaia di guardie di frontiera ben addestrate nei prossimi mesi». Addestrate a respingere, costi quel che costi, anche a costo della vita e della dignità. E ne servono sempre di più.
Questione di visioni, di strategie politiche. Per restare al confine in questione: da un lato c’è Viktor Orbàn, dall’altro il presidente serbo Aleksandar Vučić, uno che ancora due anni fa tuonava: «La Serbia non è un parcheggio per i migranti». I leader di Budapest e Belgrado, oltre ad aver condiviso, lo scorso aprile, una netta vittoria nelle rispettive elezioni, hanno in comune anche una certa “vicinanza” con la Russia di Putin. «Le testimonianze che abbiamo raccolto dimostrano che gli Stati dell’Unione Europea continuano a usare intenzionalmente violenza e strutture non idonee e pericolose per dissuadere le persone dal chiedere asilo nell’Unione Europea», riassume Alessandro Mangione, responsabile Affari Umanitari di Msf in Serbia. «Investono in recinzioni di filo spinato e droni, mentre chiudono gli occhi di fronte alle violenze senza precedenti che continuano a consumarsi alle frontiere. Queste pratiche non solo causano gravi danni fisici e psicologici, ma spingono le persone ad intraprendere rotte sempre più pericolose».