Manifestazioni al di fuori del Parlamento a Tunisi. Foto: Reuters
La Jasmin Revolution ha perso l’ultimo petalo di speranza. Domenica scorsa, 25 luglio, in occasione della Festa della Repubblica, il presidente della Tunisia, Kais Saied, ha deposto d’imperio il capo del governo Hichem Mechichi e licenziato i ministri della Difesa (Ibrahim Bartagi) e della Giustizia (Hasna Ben Slimane), ha sospeso per 30 giorni l’attività del Parlamento, congelato l’immunità per i parlamentari e ha assunto il potere esecutivo, che eserciterà «con l’aiuto di un capo del governo che sceglierò io stesso». Il tutto invocando l’articolo 80 della Costituzione tunisina, che consente la sospensione dei lavori del Parlamento in caso di “pericolo imminente”.
Un brusco e tutt’altro che “democratico” strappo istituzionale.
Ma non certo una sorpresa. Quella tunisina è la cronaca di una crisi annunciata, con una tenuta democratica che scricchiolava da mesi, in un braccio di ferro sempre più aspro tra il premier, a capo di un governo sostenuto dal partito islamico moderato Ennhadha, e il presidente tunisino, tra scambi di accuse e rimpasti bloccati, in un’impasse istituzionale aggravata da una pandemia che continua a dilagare e che ha fatto crollare (la definizione è dello stesso ministero della Salute tunisino) le fragili strutture sanitarie del paese, con un tributo di 19mila morti (su meno di 12 milioni di abitanti) e oltre il 90% dei posti letto in terapia intensiva occupati. Una decisione adottata al culmine delle proteste antigovernative, che proprio domenica avevano registrato un picco d’intensità, con assalti a colpi di pietre contro le sedi di Ennhadha in diverse città del paese, da Monastir a Sfax, da El Kef a Touzeur. Chiedevano le dimissioni del premier e lo scioglimento del Parlamento, accusando il governo islamista in carica di corruzione, di non aver saputo gestire le emergenze sociali, di essere responsabile del crollo dell’economia (meno 8% lo scorso anno), di aver fallito nella gestione dell’emergenza Coronavirus, di aver aizzato la polizia a reprimere brutalmente qualsiasi forma di protesta. E il presidente Saied ha deciso di cavalcare l’onda.
I partiti filogovernativi (e non soltanto) definiscono quanto accaduto “un colpo di stato”. Non violento (almeno finora) e con una parvenza di “copertura costituzionale”, ma pur sempre un atto di forza deciso da una sola persona che promette di “risolvere la situazione”. Diciamo così: nelle democrazie è prassi seguire altri binari per affrontare crisi istituzionali e di governo. Rachid Ghannouchi, presidente di Ennhadha e portavoce del Parlamento, ha accusato apertamente Saied di aver lanciato «un colpo di stato contro la rivoluzione e la costituzione». Per poi rimarcare: «Questo colpo di stato non ripristinerà i diritti sociali del popolo tunisino». La risposta del presidente è stata ferma: «Stiamo attraversando uno dei momenti più delicati della storia della Tunisia. Abbiamo preso queste decisioni, e le manterremo fino a quando non tornerà la pace sociale», ha dichiarato in un intervento sulla tv pubblica domenica sera. «Chi parla di colpo di Stato dovrebbe leggere la Costituzione o tornare al primo anno di scuola elementare. Io sono stato paziente e ho sofferto con il popolo tunisino». Per poi lanciare un monito agli oppositori: «Non voglio che sia versata una sola goccia di sangue. Ma chi punta un’arma diversa da quella della legittimità troverà a rispondere le forze armate, con molti proiettili». Saied si è poi regalato un bagno di folla, a piedi (circondato dalle guardie del corpo), lungo Avenue Habib Bourguiba, il viale principale della capitale, simbolo della rivoluzione del 2011 che portò alla cacciata del dittatore Ben Alì. Il presidente, ripreso dalla tv di stato Watanya 1, ha salutato una folla di tunisini acclamanti mentre gli elicotteri militari tenevano d’occhio la situazione. Poco distante si sono verificati scontri tra dimostranti islamisti e forze di polizia, con lancio di lacrimogeni e numerosi arresti.
Coprifuoco e divieto di assembramento
La mattina seguente, lunedì scorso, le truppe tunisine hanno circondato il palazzo del Bardo, la sede del Parlamento, impedendo con la forza l’ingresso al suo presidente, Rachid Ghannouchi. Che, assieme ad altri leader del partito islamista, è rimasto a presidiare i cancelli chiusi del Bardo: «Riteniamo che l’Assemblea sia in sessione permanente, che il governo sia in carica e che tutte le nostre istituzioni democratiche non siano interessate da queste misure incostituzionali», ha dichiarato Ghannouchi. «Chiediamo al presidente Saied di fermare questo tentativo di colpo di stato e chiediamo a tutti i nostri amici, dentro e fuori, di sostenere il popolo tunisino nella resistenza alle forze della dittatura e della tirannia». La risposta del presidente Saied è stata immediata, con l’imposizione di un coprifuoco nazionale dalle 19 alle 6 del mattino e il divieto di assembramenti con più di tre persone nei luoghi pubblici. Poi ha dato ordine alle forze di polizia di chiudere la sede locale della tv araba Al Jazeera: «Almeno 20 agenti in borghese sono entrati nel nostro ufficio senza alcun preavviso». Ai giornalisti dell’emittente del Qatar, obbligati a uscire senza poter prendere i propri effetti personali, è stato imposto di spegnere i telefoni e di non riprendere le fasi dello sgombero. Le chiavi degli uffici sono state sequestrate. Al Jazeera, in una nota, ha definito il raid come “un attacco alla libertà di stampa”.
Il presidente Saied, oltre ad assumere per sé anche la carica di Procuratore Generale della Repubblica (con diritto quindi di poter avviare in futuro, e in autonomia, un'azione penale anche nei confronti di parlamentari “avversi”), ha licenziato per decreto una ventina di alti funzionari governativi e il procuratore generale militare, ha incaricato Khaled Yahyaoui, direttore generale dell'unità di sicurezza presidenziale, di prendere il controllo del ministero degli Interni, che era guidato direttamente dal premier. Lo stesso Mechichi, che dalle ore del “licenziamento” era scomparso dai radar, tanto che qualcuno ipotizzava fosse agli arresti, ha scritto sulla sua pagina Facebook una lunga dichiarazione che (se autentica e non estorta) ha il sapore della resa: «Trasmetterò le mie responsabilità alla persona che sarà nominata dal Presidente della Repubblica secondo le tradizioni dello Stato, augurando successo alla nuova squadra di governo. Viva la Tunisia, libera sempre e gloria al suo popolo», ha scritto l’ex premier. E col passare delle ore la risposta degli islamisti di Ennhadha (partito sul quale è stata aperta un’inchiesta per aver ricevuto finanziamenti illeciti stranieri) è stata sempre più improntata alla conciliazione, al dialogo, allo stemperare i dissidi: l’ultima richiesta ufficiale al presidente è quella di tornare alle urne, per un voto da utilizzare come un “reset”.
Robocop, la corruzione e lo scontro laici-islamisti
Per Kais Saied, almeno finora, è un successo. Salito alla ribalta nel 2019, vincitore a sorpresa delle elezioni presidenziali, senza alcuna esperienza politica né un partito definito alle spalle, un passato da giurista e da professore di diritto all’Università di Tunisi, noioso e austero nell’eloquio tanto da meritarsi il soprannome di “Robocop”, si è fatto portatore (qualcuno l’ha accusato di populismo) del malcontento e della disillusione dei tunisini dopo la rivoluzione del 2011. Ha fatto della lotta alla corruzione la sua bandiera politica. E in questo, bisogna dirlo, è stato aiutato dall’inadeguatezza di una classe politica (a guida islamista: i partiti laici in dieci anni non sono mai riusciti a trovare un’intesa che consentisse di fare a meno di Ennhadha) che alle conquiste sociali e politiche ha risposto con una progressiva e crescente instabilità. La Tunisia, grazie anche all’influenza francese, era diventata un modello di quel che le Primavere arabe avrebbero potuto far sbocciare. A leggere la situazione di oggi, con un’economia in caduta libera, una disoccupazione oltre il 20%, l’industria del turismo paralizzata dalla pandemia e una campagna di vaccinazione che raggiunge appena il 7% della popolazione, non sembra azzardato parlare di fallimento.
Ma la situazione resta estremamente tesa e incerta. E nemmeno la rappresentazione dello scontro frontale tra laici (sostenitori del presidente Saied) e islamisti (seguaci della Fratellanza Musulmana, che a sua volta appoggia Ennhadha) basta a restituire l’immagine reale della frattura politica in atto in Tunisia. Critiche alla mossa autoritaria di Saied sono arrivate anche dai partiti laici. Heart of Tunisia, il secondo partito più grande in Parlamento, ha parlato di “Costituzione violata”, mentre il Partito dei Lavoratori, d’ispirazione marxista-leninista, l’ha definito “un colpo di stato che potrebbe innescare un ciclo di violenza, o portare la Tunisia a ricadere sotto la tirannia”. Mentre il potente Sindacato Generale del Lavoro (UGTT, oltre un milione di iscritti) non ha condannato apertamente l’azione del Presidente, rimarcando tuttavia “la necessità di aderire alla legittimità costituzionale in ogni azione intrapresa in questa fase».
A livello internazionale le prime reazioni sono arrivate da Turchia e Qatar, nazioni considerate vicine agli islamisti di Ennhadha (da qui la decisione di Saied di spegnere i ripetitori di Al Jazeera). Il ministero degli Esteri turco si è detto "profondamente preoccupato" per quanto sta accadendo in Tunisia e ha chiesto il ripristino della "legittimità democratica". Il suo omologo del Qatar si augura che "i partiti tunisini adottino la via del dialogo per superare la crisi". Di tutt’altro segno i commenti che arrivano dagli Emirati Arabi, con l’agenzia di stampa 20FourMedia che ha definito quella di Saied “una decisione coraggiosa per salvare la Tunisia”. Il segretario di Stato americano Antony Blinken ha chiamato il presidente tunisino (il che testimonia la gravità di quanto accaduto) incoraggiandolo, come è scritto in una nota del Dipartimento di Stato, "ad aderire ai principi della democrazia e dei diritti umani che sono alla base del governo tunisino e a mantenere un dialogo aperto con tutti gli attori politici e il popolo tunisino", ribadendo, come monito, che "gli Stati Uniti continueranno a monitorare la situazione e a rimanere coinvolti". Una dichiarazione di attesa, che non espone e non esclude. Decisive saranno le prossime ore, quando si capiranno gli effetti degli eventi di queste ultime ore. Ma di certo il dossier Tunisia ha scalato posizioni nell’agenda del presidente americano Biden. Mentre l’intero mondo arabo (a partire dalla Libia) resta a guardare, per ora a distanza, ma con estrema attenzione, cosa accade a Tunisi.