La disfatta di Caporetto. Foto: Archivio/A3/Contrasto
L’immaturità dei tempi e la volubilità delle posizioni - classi, formazioni politiche, individui - contraddistingue e sigilla l’anno 1919. Siamo come subito prima della partenza di una gara a cui partecipino in molti, e sentita come decisiva. Tutti cercano di mettersi in posizione, ma neppure la direzione di marcia e il traguardo risultano univoci. La contrada della Lupa guarda a destra, il Bruco ondeggia, la Pantera scatta ora da una parte, ora dall’altra, qualche fantino frusta, qualche cavallo si inalbera o rompe. In questo paesaggio di mobilità diffusa, dove nulla appare stabile e certo - meno che mai i confini fra gli stati, e fra le formazioni politiche, i programmi e le identità e i destini dei leader - uno dei grandi riferimenti ineludibili rimane la guerra. L’averla fatta o non fatta, voluta o non voluta, e il che se ne pensa oggi, con quale ricaduta e incidenza sul presente a qualche mese dalla fine. Dalla fine e dalla vittoria, anzi Vittoria con la maiuscola -suonano le trombe. Dalla fine e basta, dalla fine del massacro, e del sopruso subìto-ribattono le campane.
Tutti ci pensano a questa ondata collettiva che ha coinvolto e travolto tutti, e alle elezioni votano, in base alle idee di sé - approssimative o elaborate che siano - che ne derivano. E il 1919 si può considerare, anche, l’anno primo della letteratura di guerra: una strana letteratura d’occasione, in cui non conta l’arte, ma il bisogno di testimoniare, tuffandosi nel magma delle emozioni e delle opinioni con l’autorità del militare qualunque, che però c’era, e ora imbraccia la penna, trova chi lo stampa e gli dà voce pubblica. Scrivono tanti autori unius libri, che sono i primi a non pensarsi scrittori. Prolungamento esterno del brulichio massivo di scrittura popolare che rimane segreto, consegnato alla corrispondenza di un mittente e uno o pochi destinatari, ma in milioni e milioni di case e di casi. Due degli interventi più precoci già pubblicati o cominciati a scrivere nel ’19 risulteranno nei cento anni successivi sempre più rappresentativi anche e proprio per la labilità, la mutevolezza, i tagli, le riscritture, i cambiamenti di editore e di titolo. Le zone temporali di identità vacillanti o in itinere sono anche quelle in cui autori e editori avvertono l’opportunità di elementi esplicativi - avantesto, paratesto, avvertenze, prefazioni - che accompagnino l’interpretazione autentica del testo. Ma, se usciamo dalla dimensione estetica, non c’è nulla di autentico. Autentica è la necessità di adeguare il senso del testo ai cambiamenti di contesto - ‘Fermati, se no non riesco a coglierti!’. Ed ecco il pubblicista padovano Attilio Frescura - classe 1881 e con un servizio militare caratterizzato dall’essere stato un qualunque ‘territoriale’ – riparare nel 1919 quello che forse è stato un blando interventismo presso una libreria editrice cattolica di Vicenza, la Galla, specializzata nella messa in circolazione del teatrino per le compagnie filodrammatiche, al massimo della sua fioritura prima e durante l’avvio del Partito Popolare (scrivono commedie e drammi anche i parlamentari: sono ‘armi improprie’ nell’educazione e la conquista dei ceti popolari). Fresca di giornata, la sua cronaca strizza l’occhio in più direzioni, quando, uscendo in quell’anno, che non è più di guerra, ma che non è ancora di pace, si dà per titolo Diario di un imboscato. Forse esprime una crisi personale di rigetto - non vogliamo escluderlo. Ma certo fa pensare, e compiace - in combinazione con quella sigla editoriale e i suoi cataloghi - il mondo dell’ex-neutralismo cattolico. E in più entra a gamba tesa nelle polemiche, appunto, sugli ‘imboscati’, sostenendo che le circostanze in guerra sono tali e tante che ciascuno è comunque, come impegno e rischio, ‘da meno’ di qualcun altro. Ma proporsi come ‘imboscato’ in quello che è contemporaneamente l’anno degli ‘arditi’ richiedeva coraggio e autoironia. Se ne dovrà pentire ben presto, ed ecco Frescura passare gli anni Venti ad aggiustare il tiro, addolcendo o interpretando quel che poteva andare bene nel ’19, non va più bene, e va sempre meno bene, a mano a mano che la visione della guerra e dei combattenti si ammantano di mito. Almeno, però, non cambia un titolo che, oltre a tutto, ‘buca lo schermo’ e fa la fortuna di un libro che avrà numerose edizioni, fino al secondo dopoguerra inoltrato. Kurt Suckert, il mutante per eccellenza che cambia nome anche a sé stesso italianizzandosi in Curzio Malaparte, fa di più: era partito con un protervo Viva Caporetto! scommettendo forse su sviluppi della situazione verso sinistra, un cambio di paradigma, una linea - dalla guerra alla rivoluzione - di cui lui sarebbe stato il Giovanni Battista, come verace interprete della ribellione delle masse avviata – e per il momento abortita - nell’Ottobre italiano. Ma non succede, il clima generale comporterebbe anzi qualche vetrina di libraio rotta dai nazionalisti perché espone una parola d’ordine così scoperta e inquietante. Diventa un astuto e ambivalente. La rivolta dei santi maledetti, così ognuno decide se i soldati che hanno fatto Caporetto preferisce vederli come santi o maledetti. Prisma a più facce, come tutto il 1919.