Anche il 3 ottobre 2022 è stato un anniversario triste, trascorso invano. Con l’eccezione di pochi pregevoli eventi a Lampedusa (fra l’altro con scuole arrivate da diciannove differenti paesi, coordinate dal Comitato 3 ottobre) e in relativamente poche altre località, di alcune uscite social militanti o istituzionali, di rari servizi in orari improbabili e di uno splendido dolente articolo di Domenico Quirico sul quotidiano La Stampa quel giorno abbiamo collettivamente ricordato poco e solo vagamente la tragedia di 9 anni fa. Eppure esiste la legge entrata in vigore il 16 aprile 2016, che istituisce la giornata nazionale in memoria delle vittime dell'immigrazione, per ricordare chi "ha perso la vita nel tentativo di emigrare verso il nostro paese per sfuggire alle guerre, alle persecuzioni e alla miseria". Avrebbero pertanto dovuti essere organizzati su tutto il territorio nazionale tante cerimonie, manifestazioni, mostre e incontri per sensibilizzare l'opinione pubblica alla solidarietà civile, al rispetto della dignità umana e del valore della vita, all'integrazione e all'accoglienza. Sugli stessi temi tutte le istituzioni, nei propri ambiti di competenza, avrebbero dovuto promuovere iniziative negli istituti scolastici, anche in coordinamento con associazioni e organismi di settore.
Il 3 ottobre 2013 sulle acque italiane meridionali a sud di Lampedusa in un tragico naufragio persero la vita trecentosessantotto (368) donne e uomini della nostra specie, bambini e adulti che erano in fuga e cercavano di raggiungere le coste dell’Europa nel disperato sforzo di trovare sicurezza (lo abbiamo ricordato in più occasioni, da ultimo nel 2019, prima della pandemia). In larga parte erano migranti forzati e abbiamo già più volte illustrato che la loro emigrazione dalle proprie case sarebbe un evento sempre da evitare, sia perché non è loro libera scelta sia perché evidenzia la violazione dei loro diritti provocata dalle istituzioni centrali del paese dove risiedono.
Si tratta del primo discriminante elemento per un ragionamento serio sui fenomeni migratori: ridurre al minimo gli emigranti forzati. Ogni emigrazione forzata andrebbe evitata; sono sapiens che per sopravvivere fuggono e si “delocalizzano” (quando ci riescono); bisognerebbe garantire che ogni istituzione statuale rispetti davvero la dichiarazione dei diritti umani nel proprio territorio; meno migrazioni forzate ci sono, meglio è e si sta. Conseguentemente andrebbero ridotti al minimo i danni all’estero per gli immigranti forzati, meritevoli di essere assistiti e tutelati; invece, decine di migliaia hanno continuato a morire nelle rotte mediterranee anche dopo l’ottobre di nove anni fa.
Il secondo elemento è in sintesi il seguente: valutare se vi sono, contemporaneamente, prima emigrazioni non forzate da accettare e poi immigrazioni non forzate da subire con soddisfazione o addirittura da promuovere. Sappiamo che non esiste una risposta quantitativa valida in ogni tempo e in ogni luogo. Movimenti e trasferimenti sono sempre avventure sociali, con forte impatto ecologico ed economico. Per l’Europa e l’Italia di oggi, tuttavia, potrebbero tranquillamente essere accolti emigranti da altrove nell’ordine di pochi milioni di immigrati in Europa e poche centinaia di migliaia in Italia, ogni anno, per almeno un decennio.
La questione aperta per il nuovo Parlamento che avvierà a breve i lavori della diciannovesima legislatura è avere canali regolari di accesso e norme che non tanto fissino il tetto massimo quanto incentivino percorsi civili di reale materiale incontro fra culture ed esigenze in partenza differenti. Studiosi di demografia, economia, sociologia e scienze politiche lo sollecitano da tempo, adducendo sensati dati e motivazioni. Recentemente, a settembre 2022 sia l’istituzione nazionale italiana Istat che la Divisione Popolazione mondiale dell’Onu hanno stimato che di qui a cinquant’anni (ovvero in circa un paio di generazioni) il numero degli abitanti italiani diminuirà di undici o dodici milioni (di circa il 20 per cento, dunque), confermando quanto già emerso in passato con il contributo di riflessioni interdisciplinari. Nel 2022 sono previste soltanto 285.000 nuove nascite, nel 2041 è previsto che vi saranno figli in meno di una famiglia su quattro, fra il 2050 e il 2060 i numeri dello squilibrio medio annuo italiano fra (benvenuti) nuovi nati e (purtroppo) nuovi morti potrebbero essere quantificato in 350.000 e 800.000.
Il declino è in corso ed è stato finora rallentato solo dall’ingresso di immigrati che in Italia sono in qualche modo arrivati e poi hanno iniziato (in sempre migliore italiano) a risiedere, lavorare, mettere su famiglia, pagare le tasse, approcciarsi ai servizi pubblici, convivere, coevolvere. Il declino demografico italiano, detto “inverno” forse impropriamente, ha cause profonde e strutturali (l’inizio risale forse al 2014), è comune a molti paesi occidentali (anche se l’Italia è nel gruppo di testa), non si arresta con una sola salvifica misura (riguarda sia natalità che invecchiamento, popolazione sia fertile che globale, sia attiva che pensionata), non si inverte in un anno (nemmeno in un quinquennio di legislatura); ha una dimensione anche interna, con un processo intenso e accelerato di maggiore abbandono nelle regioni meridionali e di spopolamento delle aree interne.
Si tratta di considerare giusto e urgente attivare un insieme di unitarie lungimiranti politiche demografiche, con evidenti risvolti economici, sociali, culturali e psicologici. Fra di esse vi è la promozione dell’immigrazione dall’estero, ingente nella quantità, regolare nella qualità. Dichiarare di voler accogliere una parte di coloro che emigrano dai loro paesi con un certo grado di libertà deve certo fare i conti con rischi e paure, alimentate dal pretesto di inesistenti invasioni indiscriminate ed essere sottoposto alla doverosa verifica del rispetto delle norme nel nostro paese da parte di chi arriva. Nessuno pensa auspicabile mettere a repentaglio la nostra identità storica e culturale (comunque plurale e meticcia), anzi si tratta di governarne meglio la conservazione e la replicazione, il presente e il futuro.
I timori identitari vanno compresi e rispettati, parliamone. Oggi c’è una speculazione elettorale sulla paura, così quasi tutte le forze politiche dicono di avversare ogni immigrazione non forzata. Ribaltiamo la logica, piuttosto. Gli immigrati liberi e forzati sono stati spesso utili, servono e serviranno, quelli forzati non andrebbero fatti emigrare e bisogna eventualmente assisterli, con quelli più liberi ci si deve confrontare, vedere se e come e dove (in quali aree più di altre) sono una risorsa demografica, sociale e produttiva. Cosa fare per garantire arricchimento per le comunità e non impoverimento di (talora già poveri) italiani, veneti e siciliani, lombardi e pugliesi, piemontesi e calabri: su questo sarebbe interessante un pubblico confronto politico e parlamentare.
Quando sono in fuga o in viaggio verso l’Europa è impossibile sapere se avrebbero diritto o possibilità di chiedere asilo. Ecco perché esiste la funzione giuridica del paese di primo arrivo che ogni stato di frontiera (via terra e via mare) deve onerosamente svolgere, soprattutto nel 2022 la Polonia verso gli ucraini di tutte le generazioni, nell’ultimo mese di settembre pure la Finlandia verso giovani russi. Ed ecco perché l’Europa tradisce una delle sue fondamenta se non si dota di un’efficace regolamentazione unitaria sugli arrivi dei migranti, se conseguentemente non aiuta fin da subito i paesi di frontiera e se non attua poi una seria concordata ripartizione sia dei richiedenti asilo che dei Refugees o degli altri immigrati che emigrarono più liberamente. In questo momento esistono nei paesi europei pochi e difformi canali regolari di immigrazione dall’esterno, nonostante anche gli studiosi incaricati dai vertici di Bruxelles segnalino da tempo enormi carenze nel mercato del lavoro comunitario.
Il percorso di gestione non può che essere diverso fra chi fugge chiedendo asilo e chi vuole proporsi come immigrato. Non a caso sono stati negoziati ed entrati in vigore due differenti patti a livello di Nazioni Unite, i due Global Compact for Refugees e on Migration. Il potenziale rifugiato ha diritto all’accesso nel territorio dello stato in cui si vuole chiedere protezione (non è legittimo bloccarlo in Turchia o nel Nord Africa), anche se potrebbe accettare di risiedere successivamente altrove. Il potenziale immigrato ha compiuto la (parziale) scelta nel momento in cui ha iniziato l’emigrazione dalla sua comunità di vita, ha una meta ma risulta disponibile anche ad alternative se può realizzare interessi e competenze, potrebbe accettare di risiedere laddove un paese europeo accogliente mette a disposizione apprendimento di lingua e norme, opportunità di lavoro, diritti sociali, ovvero un progetto di (nuova) vita e, tendenzialmente, di cittadinanza demografica.
Tutto ciò va fatto sul campo, qui e ora, loro e noi, regolarmente; non può essere fissato o precluso a tavolino, a distanza di migliaia di chilometri. E poi, certo, se non si accettano lingue e costumi e leggi, quell’immigrato regolare non potrà restare, se commette reati va subito perseguito qui. Questo è un rischio loro, lo sanno, uno dei tanti: rischi che diventano realtà sia quando non sopravvivono alla fuga dalle loro case (e perdono la vita emigrando) oppure sono costretti alla schiavitù lungo il percorso e le tratte (dal 2016 gli schiavi contemporanei in carne e ossa sono cresciuti di 10 milioni, soprattutto donne, secondo un rapporto ufficiale presentato a Ginevra il 12 settembre scorso), sia quando sono irregolariper definizione perché non esiste un flusso legale regolare nel paese in cui trovano momentanea sosta via terra o via mare, da noi soprattutto sbarcando.
Oggi e da vari anni gli arrivi di immigrati sono inferiori alle partenze di emigranti dall’Italia (ulteriore scompenso demografico). Si enfatizzano quelli che risultano oggettivamente piccoli numeri, di sbarcati, potenziali rifugiati o immigrati. Dal primo gennaio al 3 ottobre 2022 sono 72.252 i migranti arrivati via mare in Italia, in leggero aumento rispetto al 2021 e al 2020 ma in netta diminuzione rispetto agli anni di maggiori flussi verso l’Europa: nel 2016 e 2017 nello stesso periodo sulle coste italiane erano arrivate rispettivamente 115.068 e 99.119 persone. Nel mese di agosto a Lampedusa il flusso è stato simile a quello dello scorso anno: 5.425 arrivi in 176 sbarchi, rispetto ai 5.210 arrivi nel 2021 in 189 sbarchi. E, periodicamente, si ripropone sull’isola il sovraffollamento del centro (una reclusione di fatto), che ha una capienza massima di 350 persone e che in alcuni giorni arriva a ospitare anche più di mille persone, se mancano o tardano i mezzi per trasferirle in strutture di altre città italiane.
Non sempre sbarcano. Dal primo gennaio al 3 ottobre 2022 vi sono stati altri 1.453 migranti morti o dispersi nel Mediterraneo, donne e uomini, bambine e bambini. Sarebbero complessivamente circa 24.000 in questi nove anni dal tragico 3 ottobre 2013, un anniversario celebrato invano. La data ricorda un evento drammatico, ma non certo isolato.Torniamo a Lampedusa, torniamo sui barconi. Lì sopra non si può distinguere il perché della migrazione di quegli individui. Già i sapiens residenti in aree e paesi da guerre e persecuzioni non hanno alternative di vita alla fuga, tutti gli altri quasi mai dispongono di alternative sicure e regolari per raggiungere l’Europa. Solo quando esisteranno canali regolari non saranno costretti a ricorrere ai trafficanti, rischiando ulteriormente la loro vita.
I percorsi concreti per i profughi possono essere molti: aumentare le quote di reinsediamento; dare accesso ai visti per ragioni umanitarie e concedere visti per motivi di studio e di lavoro alle persone in fuga da guerre e persecuzioni; facilitare i ricongiungimenti familiari; promuovere sistemi di sponsorizzazioni private. Basta vedere il parziale successo dei benemeriti corridoi umanitari di Sant’Egidio, Cei, Chiese evangeliche e Tavola Valdese (4.400 profughi aiutati ad arrivare in Italia). E una parte delle iniziative possono essere utili anche agli altri migranti. Speriamo che il nuovo Parlamento se ne accorga.