Manifestanti fronteggiano (non inquadrata nello scatto) la polizia. Foto: Reuters
Da un paio di settimane in Bangladesh si sta consumando una carneficina. Da un lato ci sono i movimenti studenteschi, il vero motore delle proteste che dal primo luglio scorso si sono accese a Dhaka, la capitale, per chiedere riforme al sistema delle quote per le assunzioni, assai ben pagate in un momento di grave difficoltà economica e occupazionale, nei posti di lavoro governativi (il 30% dei posti è riservato per legge ai parenti dei veterani che hanno combattuto nella guerra d'indipendenza del Bangladesh nel 1971). Dall’altro c’è il governo, guidato dalla premier Sheikh Hasina, 76 anni, una musulmana laica che da 15 anni (è al quarto mandato di fila) guida l’esecutivo e che non esita a imporre la sua autorità: benevola e generosa con chi la asseconda, inflessibile e feroce contro chi osa esprimere un dissenso. Com’è accaduto anche questa volta: dal 15 luglio le proteste si sono trasformate in scontri tra i manifestanti del “Movimento studentesco anti-discriminazione” (ai quali si sono progressivamente uniti anche il Partito Nazionalista del Bangladesh, e il partito di destra Jamaat-e-Islami, che hanno fiutato un tornaconto politico anche a costo di alzare il livello di violenza nello scontro) e la polizia. Il bilancio è atroce: almeno 174 morti (ma il numero reale potrebbe essere assai più alto), quasi tutti tra i dimostranti (le vittime tra gli agenti sembra siano 3, anche se le autorità non hanno voluto fornire finora le cifre ufficiali dei decessi), oltre a un numero difficilmente calcolabile e verificabile di feriti, di certo alcune migliaia. Il governo ha schierato anche l’esercito e ha imposto il coprifuoco con l’ordine di sparare a vista contro chiunque non rispetti le regole. Carri armati delle forze armate continuano a presidiare le strade, mentre dall’alto la sorveglianza è affidata a elicotteri militari. Secondo quanto riferito da diplomatici statunitensi, pistole, gas lacrimogeni e altre armi da fuoco sono state utilizzate per disperdere i manifestanti nelle vicinanze dell’ambasciata americana a Dhaka. Ma le violenze si sono rapidamente diffuse in gran parte delle città del Bangladesh: Chattogram, Chittagong, Bahaddarhat, Mymensingh, Gopalganj, Madaripur, Gazipur, Munshiganj. A partire dal 17 luglio tutte le Università del paese, pubbliche e private, hanno ricevuto l’ordine di chiudere fino a nuovo ordine. E gli studenti allontanati dagli alloggi residenziali a loro assegnati. Misure che non sono bastate a contenere la rabbia, sfociata in successivi atti di vandalismo. Incendi sono stati appiccati un po’ ovunque, nei pressi di snodi stradali, o contro edifici governativi e stazioni di polizia, con centinaia di veicoli tra Suv, camion e moto dati alle fiamme. Uno degli incendi ha coinvolto la Khawaja Tower, il “data-center” di Dhaka, di fatto bloccando la rete internet nel paese (ma c’è chi sostiene che il blocco di internet sia stato imposto dal governo per bloccare le comunicazioni tra i manifestanti) e rendendo ancor più difficile accedere alle informazioni. Innumerevoli le vittime più o meno gravi delle violenze, con gli ospedali che sono ormai al collasso. Secondo il quotidiano locale Prothom Alo gli arresti conseguenti ai disordini questi ultimi giorni di disordini sarebbero oltre cinquemila, quasi la metà nella capitale.
La Corte Suprema ridimensiona la legge sulle quote
In queste ore in Bangladesh sembra essere tornata una sorta di calma, di apparente tranquillità. Gli scontri sono diventati sporadici, la “fiammata” più acuta potrebbe essere passata, ma non è detto che non ce ne siano altre, a breve. E a placare gli animi potrebbe essere stata anche la sentenza della Corte Supremasull’assegnazione delle quote, che era stato eliminato nel 2018 (sempre sulla scia di poderose proteste studentesche) ma ripristinato dall’attuale governo il mese scorso (e i detrattori sostengono che fosse un modo per piazzare in posti sicuri, e perciò “ricompensare”, i sostenitori del partito Awami League e della premier Sheikh Hasina). L’Alta Corte ha stabilito che non più il 30%, ma il 5% dei posti di lavoro governativi sarà riservato ai parenti dei veterani, e un altro 2% destinato alle minoranze etniche, alle persone transgender e disabili. Dunque il 93% dovrebbe essere assegnato, teoricamente, in base al merito, anche se resta comunque il governo, se non a decidere, a influenzare, a orientare le assunzioni nei posti pubblici. Una battaglia di principio più che di sostanza. Anche se la protesta si è di fatto trasformata in una rivolta contro i 15 anni di governo dell’attuale prima ministra, contro le disuguaglianze crescenti, contro la corruzione che sempre più dilaga. «La protesta è la manifestazione di un malessere diffuso che non riguarda solo le quote, ma anche l’economia e la politica», ha sostenuto Pierre Prakash, direttore dell’Asia Program presso l’International Crisis Group.
Intanto le forze di sicurezza, esercito e polizia, compreso il Battaglione di Azione Rapida (Rapid Action Battalion – RAB - una temuta unità paramilitare i cui leader già in passato sono stati accusati di aver commesso torture, uccisioni extragiudiziali e sparizioni forzate), sono apertamente accusate dai manifestanti di aver represso le proteste con un “uso eccessivo della forza”; il governo replica incolpando gli oppositori politici di aver fomentato i disordini più violenti. La premier Hasina, accusata di aver schierato contro i manifestanti perfino elicotteri e veicoli appartenenti alle forze di pace delle Nazioni Unite, ha dichiarato di essere stata “costretta” a imporre il coprifuoco per la difesa della sicurezza pubblica a causa della violenza dei manifestanti: «Il mio governo continuerà a lavorare per sopprimere i militanti del Bangladesh Nationalist Party e del Jamaat-e-Islami, con le loro ali studentesche, e creare così un ambiente migliore». La redazione bengalese della Bbc ha raccolto l’opinione di Mubashar Hasan, ricercatore presso l’Università di Oslo esperto in sistemi autoritari: «L’eccessiva politicizzazione dell’azione di governo da parte di Sheikh Hasina e del suo partito, la negazione dei diritti di voto fondamentali ai cittadini anno dopo anno e la natura dittatoriale del suo regime hanno fatto arrabbiare gran parte della società», ha sostenuto Hasan. «Sfortunatamente, non è mai diventata il primo ministro per tutti nel paese. Invece, è rimasta la leader di un solo gruppo». Sempre la Bbc riporta, in un successivo reportage, la testimonianza di una studentessa della Brac University, un ateneo privato con sede a Dhaka, coinvolta negli scontri del 17 luglio: «Volevamo solo fare una manifestazione pacifica, ma la polizia ha rovinato tutto. Ci hanno attaccato la mattina, verso le 11,30, lanciando gas lacrimogeni. Poi hanno cominciato a sparare proiettili di gomma: alcuni studenti sono stati intrappolati nel campus e gli è stato perfino impedito di portare i feriti più gravi in ospedale».
Un manifestante si protegge con una lamina di metallo durante una manifestazione in Bangladesh. Foto: Reuters
Amnesty: violenza immotivata della polizia contro i dimostranti
Rastrellamenti delle forze dell’ordine in diverse città del paese sono tuttora in corso. Giovedì scorso il segretario generale congiunto del Bangladesh Nationalist Party (BNP), Shahid Uddin Chowdhury Annie, è stato arrestato con l’accusa di aver avuto un ruolo nei disordini ed è attualmente detenuto in carcere. Stessa sorte per il presidente del Bangladesh Jatiya Party (BJP, partito conservatore di centro-destra), l’avvocato Andaleeve Rahman Partho, condannato a 5 giorni di reclusione per “vandalismo e incendio doloso”, e per altri esponenti dei partiti di opposizione. Intanto anche Amnesty International denuncia l’azione violenta delle autorità governative del Bangladesh: «Testimonianze, prove video e fotografiche analizzate e autenticate da Amnesty International e dal suo Crisis Evidence Lab confermano l’uso illegale della forza da parte della polizia contro gli studenti che protestano», scrive Amnesty. «Ulteriori testimonianze confermano la continuazione di un modello pluriennale di violenze contro i manifestanti, presumibilmente commesse da membri della Bangladesh Chatra League (BCL), un gruppo affiliato al partito di governo». L’ong ha inoltre condannato l’uccisione dello studente Abu Sayed (studente dell'Università Begum Rokeya, nel distretto meridionale di Rangour, assassinato dalla polizia il 16 luglio scorso assieme ad altri 5 ragazzi) e gli attacchi contro i manifestanti all’Università di Dhaka e in altri campus in tutto il paese. «Non avevamo armi in mano, soltanto cartelli e bandiere», ha raccontato uno studente dell’Università di Dhaka. «La polizia ha iniziato a lanciarci contro mattoni e poi ci hanno colpiti con sbarre di ferro. Non facevano discriminazioni tra uomini e donne: hanno preso le donne a calci nel petto, nello stomaco e sulla testa». Le testimonianze che filtrano sono sempre più esplicite e raccapriccianti. Come quella offerta dal New York Times, che ha parlato con Naomi Hossain, studiosa del Bangladesh presso la School of Oriental and African Studies di Londra: «Stanno sparando a bruciapelo a studenti, a ragazzini, per le strade. La gente è inorridita».
L’Onu accusa il governo della premier Sheikh Hasina
La connessione internet è stata parzialmente ripristinata nello stato asiatico, con priorità per banche, aziende e fabbriche (si stima che il blocco di internet e il coprifuoco abbiano provocato un danno commerciale superiore al miliardo di dollari). Ma il problema è ormai diventato politico, con la premier Sheikh Hasina accusata di aver deliberatamente ordinato di sparare contro gruppi di manifestanti, provocando una strage dai contorni non ancora perfettamente delineati. L’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i diritti umani (OHCHR) ha emesso poche ore fa una nota nella quale chiede al governo del Bangladesh di «porre immediatamente fine alla violenta repressione contro i manifestanti e gli oppositori politici, di ripristinare completamente l’accesso a Internet e ai social media e di garantire l’accertamento delle responsabilità per le violazioni dei diritti umani. Siamo allarmati - scrivono gli esperti dell’Onu - dal gran numero di uccisioni illegali, possibili sparizioni forzate, torture e detenzioni di migliaia di persone. Come siamo profondamente preoccupati per le notizie di attacchi mirati, minacce, intimidazioni e ritorsioni da parte delle autorità e dei gruppi allineati al governo contro i leader delle proteste, gli attivisti politici, i difensori dei diritti umani e i giornalisti». Anche Human Rights Watch, nel suo report 2024 (riferito non agli ultimi eventi, ma a quanto accaduto nel 2023) disegnava un quadro inquietante della situazione, tra sparizioni forzate, esecuzioni extragiudiziali, torture e impunità: «Secondo gli osservatori dei diritti umani del Bangladesh, le forze di sicurezza hanno effettuato oltre 600 sparizioni forzate dal 2009. Mentre alcune persone sono state successivamente rilasciate, condotte in tribunale o, si dice, siano morte durante uno scontro armato con le forze di sicurezza, quasi 100 persone rimangono tuttora disperse. Il governo ha rifiutato di accettare l’offerta delle Nazioni Unite di contribuire a stabilire una procedura per indagare sulle accuse di sparizioni forzate in linea con gli standard internazionali. Invece, le autorità del Bangladesh continuano a molestare e intimidire le famiglie delle vittime». Nel mirino delle critiche c’è sempre più lei, la controversa premier Sheikh Hasina, figlia dello sceicco Mujibur Rahman, padre fondatore del Bangladesh, ucciso nel 1975 in un colpo di stato militare insieme a gran parte della sua famiglia pochi anni dopo aver condotto una guerra separatista contro il Pakistan, in risposta alla persecuzione dell’etnia bengalese. Sheikh Hasina, che all’epoca dell’attentato si trovava all’estero, ne ha raccolto l’eredità proponendosi e affermandosi come leader pro-democrazia. Ma il trascorrere degli anni e l’accumularsi dei mandati, evidentemente, ha prodotto un cambiamento drastico nella sua politica, che mostra ormai senza più filtri un lato marcatamente autoritario. Di cui ora la premier dovrà rispondere, anche di fronte alla comunità internazionale.