Una veduta dall'alto di Dacca, capitale del Bangladesh
Per i governi con tendenze autoritarie è, da sempre, la scorciatoia più semplice: silenziare il dissenso togliendo la voce a chi protesta. Chiudendo in carcere chi non si adegua, ma anche interrompendo le naturali “vie di fuga” delle notizie, delle informazioni, delle critiche. Sta accadendo anche in Bangladesh, spicchio d’Asia meridionale tra India e Myanmar che s’affaccia sul Golfo del Bengala. Un paese che, va detto, non brilla certo per libertà di stampa, dove fare giornalismo è sempre più un rischio, al punto che il World Press Freedom Index 2022 di Reporter senza frontiere (RSF) lo colloca al 162° posto su 180, dietro addirittura alla Russia (155°), all’Afghanistan (156°) e al Nicaragua (160°). Lunedì scorso, 20 febbraio, il principale giornale d’opposizione bengalese, il Dainik Dinkal, che per più di trent’anni ha dato voce al Partito Nazionalista del Bangladesh (BNP), è stato chiuso per ordine del tribunale distrettuale di Dacca. Ufficialmente il “permesso di stampa” è stato revocato dai giudici perché la testata è accusata di aver violato le leggi nazionali sulla stampa e la pubblicazione. I giudici avevano ordinato la chiusura della testata già il 26 dicembre scorso, ma l’editore aveva presentato un ricorso urgente d’appello al “Consiglio della stampa”, guidato da un giudice dell’Alta corte. Ricorso respinto e stop immediato alle pubblicazioni. Resta l’edizione online, ma è probabile che a breve anche quel segnale sarà spento. Soltanto il mese scorso il governo aveva disposto la chiusura di 191 siti web, accusati, sulla base di “report” redatti dell’intelligence bengalese, di aver pubblicato “notizie contro lo Stato”. Una prassi che oramai va avanti da anni.
Questo accade quando l’abbraccio tra politica e giornalismo diventa morboso e non si riescono più a distinguere (e a rispettare) i rispettivi ambiti di competenza. L’attuale ministro degli esteri del governo bengalese, AK Abdul Momen, pochi giorni prima della chiusura del Dainik Dinkal, ha sostenuto che «i media sono il più grande strumento per far progredire il paese. Tuttavia, spesso distorcono la realtà per favorire i loro interessi. Dire la verità, senza distorcerla, sarà di grande beneficio per il paese». Va detto però che lo scontento popolare non è un’invenzione giornalistica. Che da mesi migliaia di persone, e tra loro moltissimi sono sostenitori del Partito Nazionalista, scendono in piazza, soprattutto nella capitale, per protestare contro l’insostenibile aumento dei prezzi dei beni essenziali e del carburante, contro le sempre più frequenti interruzioni di corrente e per chiedere le dimissioni della premier Sheikh Hasina, leader del partito Awami League (centro-sinistra) che dal 2009 governa il paese asiatico. Il Partito Nazionalista chiede in sostanza lo scioglimento immediato dell’esecutivo e la nomina di un governo di transizione che possa accompagnare il paese alle prossime elezioni generali, che dovrebbero tenersi nel gennaio del 2024. La premier, finora, non sembra aver preso in alcuna considerazione l’ipotesi.
Scontro politico, atti di terrorismo e vendette
Il risentimento, se non addirittura il rancore, tra i due principali partiti politici bengalesi che contribuirono alla caduta della dittatura militare del generale Ershad (1982-1990), ha radici antiche. Fu il BPN a vincere le prime elezioni democratiche, nel 1991, quando riuscì a formare un governo con il sostegno del partito islamico Jamaat-e-Islami, con Khaleda Zia come Primo Ministro. Ed era lei la premier nell’agosto del 2004, quando a una manifestazione contro il terrorismo promossa dell’allora partito d’opposizione Awami League, sulla Bangabandhu Avenue, a Dacca, proprio accanto alla sede del partito, un commando attaccò il palco e la folla con migliaia di persone lanciando tredici granate. Il bilancio fu drammatico: 24 morti, oltre 500 feriti. La leader di Awami League, Sheikh Hasina, con ogni probabilità il vero bersaglio dell’attacco, ne uscì illesa. Dopo una prima indagine non del tutto limpida e approfondita (il Partito Nazionalista fu anche accusato di aver costruito prove false, di aver fatto sparire cadaveri e di aver estorto false confessioni attraverso forme di tortura), nel 2007 arrivò la confessione di Mufti Abdul Hannan, leader del gruppo militante Harkat-ul-Jihad-al-Islami (letteralmente Movimento della Guerra Santa Islamica), che oltre a prendersi la responsabilità dell’esecuzione pratica dell’attentato, rivelò di aver avuto il sostegno dei vertici del BNP. Gli ulteriori processi che ne seguirono portarono all’individuazione di decine di responsabili, materiali e morali, dell’attentato, molti dei quali furono condannati a morte.
Ed è qui che la tragica vicenda di allora si salda con quanto sta accadendo oggi. Perché tra i condannati all’ergastolo, come “mandante” dell’attentato, figura anche Tarique Rahman, figlio dell’ex premier Khaleda Zia (a sua volte condannata per vari casi di corruzione, pena al momento sospesa per le sue non brillanti condizioni di salute), costretto all’esilio (dal 2008 vive a Londra, con la sua famiglia) con la promessa, scritta, di “non interferire in alcun modo, in futuro, nella politica bengalese”. Tarique Rahman è l’attuale presidente ad interim del BNP, nonché editore del quotidiano Dainik Dinkal. Non appena è stata diffusa la notizia della chiusura del giornale (per violazione di una legge che risale al 1973, il Printing Presses and Publications Act, che dispone la revoca per le pubblicazioni qualora l’editore fosse stato condannato per un reato che “coinvolge turpitudine morale”) Rahman ha presentato le sue dimissioni, nominando un sostituto, ma il Consiglio della Stampa non ha ritenuto la mossa sufficiente per cambiare il verdetto, definendo Rahman “un criminale”. «Questa chiusura fa parte della repressione del governo sulle voci dissenzienti e sulla libertà di parola», ha dichiarato Shamsur Rahman Shimul Biswas, caporedattore del giornale.
Sabato 25 febbraio manifestazione ad alto rischio
Così si procede per fronti contrapposti, in un crescendo di accuse e controaccuse. Lo stesso Dainik Dinkal riporta, nella sua edizione online, una dichiarazione del segretario generale del BNP, Mirza Fakhrul Islam Alamgir, che ha chiesto «il ripristino della democrazia contro le sofferenze causate dal governo antipopolare», annunciando una grande manifestazione di protesta che si terrà “in tutti i distretti del paese” sabato prossimo, 25 febbraio. Una protesta, scrive il quotidiano, “contro l’aumento sfrenato dei prezzi di elettricità, gas, riso, legumi, petrolio, zucchero, e per il rilascio di leader e attivisti imprigionati, tra cui Begum Khaleda Zia e le dimissioni del governo fascista antipopolare, la cancellazione del parlamento illegale, il ripristino della democrazia sotto un governo di transizione neutrale senza insegne di partito”. Lo stesso Alamgir, lo scorso dicembre, era stato arrestato (e successivamente rilasciato, su cauzione) con l’accusa di “istigazione alla violenza e ostruzione al lavoro del governo” per aver partecipato a una manifestazione di protesta. Accuse previste dalla Digital Security Act (DSA), la legge approvata nel 2018 per contrastare i “crimini digitali”, in realtà per silenziare il dissenso, per spedire in carcere chi critica il governo, per chiudere quei siti web dove transitano notizie non gradite all’esecutivo. Il Partito Nazionalista sostiene che nell’ultimo decennio sono state avviate 180mila cause legali contro membri del partito,
L’impressione che non stia tutto girando per il verso giusto in termini di libertà d’espressione e di rispetto dei diritti umani non si limita soltanto allo scontro politico interno al Bangladesh. Allarmi crescenti stanno suonando anche al di fuori dei confini nazionali. Come denuncia Human Rights Watch nel suo ultimo report, pubblicato all’inizio di febbraio: «Le forze di sicurezza del Bangladesh - scrive l’ong - sono state implicate in gravi abusi, tra cui torture, esecuzioni extragiudiziali e sparizioni forzate. Il Battaglione di Azione Rapida, notoriamente violento, fu sanzionato dagli Stati Uniti. Il governo ha arrestato giornalisti e critici ai sensi del Digital Security Act e ha altrimenti soffocato la società civile». Un gruppo di esperti delle Nazioni Unite ha appena esortato il governo del Bangladesh a far cadere le accuse contro la giornalista investigativa Rozina Islam (e altri 3 suoi colleghi sono attualmente detenuti) e porre fine alla pratica di procedimenti giudiziari prolungati contro giornalisti e difensori dei diritti umani. Anche la parlamentare australiana Janet Rice si è esposta, esortando la comunità internazionale a fare «tutto il possibile per affrontare le violazioni dei diritti umani in Bangladesh: il governo ha arrestato giornalisti e critici ai sensi del Digital Security Act e ha soffocato la società civile. Le autorità non riescono a proteggere le persone LGBT, le comunità religiose e le popolazioni indigene. Donne e bambini affrontano violenze diffuse e aggressioni sessuali senza protezione affidabile o ricorso legale». Mentre nel paese dilaga la preoccupazione per l’altissimo numero dei suicidi tra i giovani e i giovanissimi: 542 ragazzi si sono tolti la vita solo lo scorso anno, per motivi che variano da aspettative familiari non soddisfatte a depressione, problemi mentali o economici, abusi sessuali, molestie e stupri. Il 63,9% dei casi riguarda ragazze. Oltre al persistente fenomeno della migrazione, con percentuali in lieve calo, ma che vede il Bangladesh ancora al sesto posto al mondo tra i paesi d’origine dei migranti internazionali (in Italiaè al quarto posto per nuovi arrivi, dati 2021). I bengalesi residenti all’estero (soprattutto in India, Stati Uniti e Regno Unito) sono stimati in circa 8 milioni: con le loro rimesse portano un contributo indispensabile all’economia locale.
Eppure è ancora la polarizzazione dello scontro politico interno a prevalere, con sempre maggiore evidenza. Il primo ministro Sheikh Hasina, nonostante le accuse sempre più circostanziate di scivolare verso una forma di autoritarismo, continua a ripetere che il suo partito, la Awami League, «continuerà a servire le persone, non ad abbandonarle come fa il Bangladesh National Party». In un comizio, alla fine di gennaio, ha fatto riferimento alla vicenda di Tarique Rahman: «I leader del BNP dicono che combatteranno la corruzione. Con chi, chiedo? Con un criminale condannato al timone? Colui che si è impegnato a non partecipare più alla politica nel 2007 e successivamente è fuggito dal paese»? La risposta, enfatica, dei nazionalisti arriva sempre dalla pagina web (chissà per quanto ancora sarà attiva) del Dainik Dinkal: «L’obiettivo del BNP non è quello di andare al potere, ma di liberare il popolo di questo paese. il partito non creerà mai disordini se la Awami League non creerà disordini». Ma c’è molta preoccupazione per quanto potrebbe accadere sabato prossimo, durante l’ennesima manifestazione di protesta. Il quotidiano nazionalista riporta anche le parole di ferma condanna pronunciate da Ghulam Muhammed Quader, leader del partito conservatore Jatiya, ex alleato della premier Hasina, ora passato all’opposizione: «Anche se la Lega Awami parla di democrazia, non c’è democrazia nel paese. Questa è dittatura».