Festeggiamenti, in strada, per le dimissioni della premier Sheikh Hasina. Foto: Reuters
La frettolosa fuga della prima ministra Sheikh Hasina in India (accompagnata dalla sorella Sheikh Rehana, a bordo di un C130J dell’aeronautica militare atterrato lunedì sera nella base aerea di Hindon a Ghaziabad, nella regione dell’Uttar Pradesh) è stata salutata con entusiasmo dai manifestanti che per oltre un mese hanno inscenato furiose proteste antigovernative in Bangladesh, chiedendo appunto le dimissioni della premier, in carica dal 2009 e assai criticata per i suoi atteggiamenti autoritari. E potrebbe essere davvero un bene per il paese asiatico sprofondato nell’ultimo mese in una crisi politica profonda e in un vortice di eccezionale violenza, con un tributo che ormai supera complessivamente i quattrocento morti e con migliaia di feriti.
La premier Sheikh Hasina ritratta in un murales vandalizzato dopo le sue dimissioni. Foto: Reuters
Il capo dell’esercito nazionale, Waker-Uz-Zaman ha dichiarato lunedì scorso, dopo la fuga della premier, che era pronto ad assumersi “la piena responsabilità”, con l’intenzione di formare un governo ad interimcomposto da tutti i partiti, o quasi: il partito islamista Jamaat-e-Islami e la sua ala studentesca, l’Islami Chhatra Shibir, messo al bando pochi giorni fa perché accusato di aver “alimentato le violenze” durante le proteste, potrebbe essere escluso dal prossimo esecutivo di unità nazionale, che in teoria dovrebbe portare il paese a nuove elezioni. L’unica certezza, al momento, è che il “pallino” della partita politica è nuovamente tornato nelle mani dell’esercito, di quegli stessi militari che nei giorni scorsi avevano ricevuto dal governo uscente l’ordine di schiacciare le rivolte anche “sparando a vista”: e così è stato (gruppi per i diritti umani hanno più volte accusato il governo e l’esercito di aver utilizzato un uso eccessivo della forza). Dunque non un ruolo “terzo”, anche se sembra che sia stato proprio l’esercito a mettere uno stop alla furia repressiva che la premier pretendeva. Ora il generale Zaman predica calma e sparge parole di saggezza: «Il paese ha sofferto molto, l’economia è stata colpita, molte persone sono state uccise: è tempo di fermare la violenza». E rivolgendosi agli studenti: «Qualunque siano le vostre richieste, le soddisferemo e riporteremo la pace nella nazione: per favore aiutateci, state lontani dalla violenza. I militari non spareranno a nessuno, la polizia non sparerà a nessuno, ho dato ordini. Vi do la mia parola che tutte le ingiustizie saranno affrontate, che ogni omicidio sarà indagato. Per favore, abbiate pazienza, dateci un po' di tempo».
Gli scontri di quest'ultimo periodo tra manifestanti e polizia
Gli studenti hanno scelto: sarà premier l’economista Yunus
La speranza è che quell’appello sia ascoltato da tutti gli attori di questo complesso puzzle, nel quale compaiono, e con un ruolo tutt’altro che marginale, anche i servizi segreti del Pakistan, accusati di aver “manovrato” l’ala studentesca del partito islamista Jamaat-e-Islami, e lo stesso Movimento studentesco, dal quale sta emergendo la figura di Nahid Islam, 26 anni, studente di sociologia, fin dall’inizio in prima fila, con una bandiera del Bangladesh legata alla fronte, nel guidare le proteste (la scintilla iniziale era stata la richiesta di una riforma del sistema delle quote per le assunzioni nei posti di lavoro governativi, poi concessa dalla Corte Suprema). Anche la vicina India resta in allerta, al punto che il primo ministro Narendra Modi, strenuo sostenitore nel corso degli anni di Sheikh Hasina, con la quale aveva appena siglato un accordo per una “partnership digitale e verde” per un futuro sostenibile, ha espresso “preoccupazione” per la situazione. Da calcolare proprio il peso dei manifestanti, che invece hanno già individuato la figura giusta per assumere la guida del governo di coalizione: l’economista Muhammad Yunus, il “banchiere dei poveri”, l’inventore del microcredito (Yunus sostiene che povertà significa essere privati di ogni valore umano, e che il microcredito sia da considerare come un diritto umano ma anche come un mezzo efficace per uscire dalla povertà), che nel 2006, proprio per il suo sforzo di creare sviluppo economico “dal basso”, fu insignito del premio Nobel per la pace. E così sarà: la nomina ufficiale, firmata dal presidente del Bangladesh, Muhammed Shahabuddin, è arrivata ieri sera, martedì, al termine di un incontro a Bangabhaban (la sede ufficiale del primo ministro) al quale hanno partecipato, oltre al presidente, i capi militari e i coordinatori del Movimento studentesco anti-discriminazione. Il loro leader, Nahid Islam, aveva precisato poche ore prima con estrema chiarezza che non sarebbe stato accettato in alcun modo dai manifestanti un governo a guida militare: «Abbiamo dato il nostro sangue, siamo stati martirizzati e dobbiamo mantenere la nostra promessa di costruire un nuovo Bangladesh», ha dichiarato. «Non sarà accettato alcun governo diverso da quello proposto dagli studenti: nessun governo militare, o sostenuto dai militari, o un governo di fascisti, sarà approvato».
Incendiato un hotel di lusso: 24 morti
La situazione nella capitale Dhaka, e in gran parte delle principali città del paese, sembra essere tornata, in queste ultime ore, a una situazione di apparente tranquillità dopo i drammatici scontri mortali dello scorso fine settimana. E dopo la fiammata di disordini esplosa lunedì scorso, quando si è diffusa la notizia delle dimissioni, e della fuga, della premier Hasina. Decine di migliaia di manifestanti hanno assaltato la residenza ufficiale della prima ministra, saccheggiandola, portando via mobili, quadri, perfino piante in vaso. I manifestanti hanno anche demolito la statua di Sheikh Mujibur Rahman, il padre dell’ormai ex prima ministra, eroe simbolo del Bangladesh, colui che aveva guidato il paese verso l’indipendenza dal Pakistan nel 1971 diventandone il primo presidente. Ma il gesto, simbolico, non è bastato a placare la rabbia della popolazione insorta. Diversi uffici della Lega Awami, il partito politico della premier fuggita, sono stati attaccati e dati alle fiamme. Danneggiati anche quattro templi indù e un centro culturale indiano. Ma l’episodio più grave è accaduto, sempre lunedì sera, nel distretto di Jessore, nel sud-ovest del paese, dove la folla inferocita ha appiccato il fuoco nella hall dello Zabeer International Hotel, un albergo di lusso di proprietà del segretario generale distrettuale della Lega Awami, Shahin Chakkladar. Le fiamme si sono rapidamente diffuse ai piani superiori, raggiungendo le camere dei clienti: 24 le vittime finora accertate, secondo quanto riferito dai medici del General Hospital.
Scarcerata la leader dell’opposizione
Per tutto ciò la situazione in Bangladesh resta assai delicata. La speranza è che la rapida nomina del governo di transizione possa placare la rabbia dei manifestanti; perché il tributo di morti dell’ultimo mese è stato enorme (il numero di 400 vittime rischia di essere sottostimato), come quello dei feriti, degli studenti arrestati, spesso arbitrariamente; perché la transizione difficilmente potrà prescindere dal ruolo degli stessi studenti, che sono riusciti a ribaltare il tavolo della politica, dopo anni di violazioni dei diritti umani, di corruzione sempre più diffusa, di disuguaglianze crescenti, di sparizioni forzate, di elezioni truccate, anche se a un prezzo altissimo di vite umane. Sheikh Hasina ha commesso un errore fatale: quando ancora le proteste contro il “sistema delle quote” era pacifico, proteste nate all’interno delle facoltà delle università pubbliche, la ex premier si era rivolta agli stessi studenti, in un discorso trasmesso in tv, in termini sprezzanti: definendoli rajakar (traditori), termine usato durante la guerra di liberazione del Bangladesh per indicare i collaboratori laboratori pro-Pakistan. Era il 14 luglio: e lì, in quel momento, la protesta si è trasformata in rivolta. E a nulla è servito chiudere scuole e università. E la repressione violenta da parte dell’esercito ha esasperato ancor più gli animi: fin quando gli stessi capi militari hanno deciso di dire basta, costringendo di fatto Hasina a fuggire. Il presidente della Repubblica popolare del Bangladesh, Mohammad Shahabuddin, due giorni fa ha disposto, come simbolico “cambio di passo”, la scarcerazione della leader dell’opposizione, ed ex prima ministra (tra il 2001 e il 2006), Begum Khaleda Zia (era stata condannata a 17 anni di carcere con l’accusa di corruzione), presidente del Partito nazionalista del Bangladesh (BNP). Il capo dello stato ha ordinato anche la scarcerazione per coloro che sono stati arrestati durante le proteste studentesche.
Ovviamente servirà molta attenzione per disegnare il futuro prossimo del Bangladesh, che resta comunque ancora oggi estremamente incerto. Anche perché sono ancora molte le domande in attesa di risposta. L’esercito riuscirà a mantenere nel tempo la sua promessa di consegnare a un’amministrazione civile l’autorità del prossimo governo? A guidare rapidamente il paese verso una più solida e robusta democrazia? La questione non è banale, viste le frequenti “incursioni” dell’esercito nella politica nella pur breve storia del Bangladesh, che in 53 anni di vita ha subìto 29 colpi di stato, tra riusciti e tentati. Dal 1977 al 1981, e tra il 1981 e il 1990, ha anche sperimentato il governo diretto dei militari. Tutto dipenderà dalla coesione che il governo di transizione saprà trovare nel traghettare il paese provato da 15 anni di sostanziale dittatura (divieto di critica al governo, bavaglio alla stampa, detenzione degli attivisti politici e civili). La stagione politica di Sheick Hasina, e del suo partito, la Lega Awami, sembra definitivamente chiusa. Peraltro Hasina starebbe cercando una destinazione definitiva per il suo esilio (Londra tentenna, altre ipotesi Qatar, Emirati Arabi o Arabia Saudita le alternative). «Le dimissioni di Hasina segnano, almeno per il momento, la fine del governo della Lega Awami in Bangladesh», scrive su The Conversation Tazreena Sajjad, esperta di politica del Bangladesh presso la School of International Service dell’American University. «I paesi dell’Asia meridionale, tra cui il Bangladesh, sono stati in gran parte plasmati da dinastie politiche. Quindi il rifiuto della Lega Awami, e il fatto che molti stiano rifiutando anche altri partiti politici consolidati - il Partito Nazionalista del Bangladesh, il Jamaat-i-Islami e il Partito Jatiya - è straordinario. Questi partiti consolidati cercheranno senza dubbio di riorganizzarsi. Mentre la Lega Awami potrebbe non essere in grado di partecipare alle prossime elezioni. Per il momento, potrebbe esserci un’opportunità per il Bangladesh di avere voci e volti nuovi in politica, potenzialmente emergenti dal movimento studentesco. È troppo presto per speculare su cosa riservi il futuro per il Bangladesh: la situazione è estremamente fluida e si evolve di minuto in minuto. Ma nel frattempo, anche gli enormi danni arrecati all’economia del paese dai disordini politici e dal coprifuoco militare richiederanno attenzione».