Illustrazione delle linee di forza del campo geomagnetico terrestre, rappresentato come un campo magnetico di dipolo. Credit: P. Reid/NASA
Uno studio recente suggerisce che l’ultima inversione del campo geomagnetico terrestre durò almeno 22 mila anni prima di completarsi. Questo risultato, che deriva dalla combinazione di una serie di dati ricavati da attività vulcaniche, di sedimentazione e dal carotaggio dei ghiacciai, indica che le inversioni magnetiche possono richiedere tempi più lunghi di quanto ipotizzato in precedenza. Lo studio, inoltre, contraddice la nozione in base alla quale la prossima inversione magnetica dovrebbe avvenire nell’arco di un secolo.
Il campo geomagnetico terrestre è dovuto al movimento del nucleo liquido più esterno che agisce come una dinamo. Nonostante sia stabile in superficie, e alquanto attendibile per la navigazione, il campo geomagnetico varia nel tempo. Al momento, il polo Nord magnetico si sta spostando verso la Siberia mentre l’intensità del campo si è indebolita costantemente di circa il 5 percento ogni cento anni da quando i ricercatori hanno iniziato a raccogliere i dati.
La figura illustra la migrazione del Polo Nord magnetico dal Canada verso la Siberia. Per ora, il Nord magnetico si trova molto vicino al Nord geografico. Credit: World Data Center for Geomagnetism/Kyoto University
Grazie a particolari minerali presenti in certe rocce, testimoni dell’attività magnetica nel corso del tempo, sappiamo che l’indebolimento del campo può essere un segnale o di un’escursione, quando cioè i poli magnetici ruotano di circa 45 gradi, oppure di un’inversione completa.
Questi eventi, che sono la conseguenza di instabilità sempre più significative nel processo del movimento del nucleo liquido terrestre, sembrano avvenire ogni circa alcune centinaia di migliaia di anni. “Le inversioni magnetiche hanno origine nelle regioni più profonde del nostro pianeta”, spiega Brad Singer dell’Università del Wisconsin a Madison e autore principale dello studio.
“ Le inversioni magnetiche hanno origine nelle regioni più profonde del nostro pianeta Brad Singer
Se da un lato non è ancora chiaro quale potrebbe essere esattamente l’impatto di una futura inversione magnetica sulla popolazione, sulla navigazione o sulle comunicazioni, dall’altro non è stato compreso del tutto quali sono le cause, i tempi in gioco o i segnali di avvertimento di tali eventi.
“A meno che non si ha a disposizione una registrazione accurata e ad alta risoluzione di come si presenta un’inversione geomagnetica sulla superficie terrestre, è difficile persino discutere dei meccanismi che possono essere alla base del processo”, fa notare Singer.
Dunque, per sviluppare un quadro più accurato, Singer e collaboratori hanno ricavato una serie di dati dell’attività magnetica da campioni di rocce provenienti da sette siti in cui è stata, o è ancora presente, attività vulcanica (Isole Canarie, Caraibi, Cile, Hawaii e Tahiti). Gli scienziati hanno così determinato l’età delle rocce utilizzando un metodo innovativo che si basa sulla datazione al potassio-argon.
“I flussi di lava sono testimoni ideali dell’attività del campo magnetico”, dice Singer. “Sono ricchi di minerali contenenti ferro e quando si raffreddano bloccano, per così dire, l’orientamento del campo magnetico. Si tratta, però, di una datazione casuale. Nessun vulcano erutta in maniera continua perciò ci dobbiamo affidare ad un attento lavoro sul campo per identificare i campioni di rocce più attendibili”.
Il team ha combinato, poi, le proprie misure con due insiemi di dati che si riferiscono alla variazione temporale dell’orientamento del campo geomagnetico. Il primo insieme di “letture magnetiche” è stato ottenuto analizzando il fondo marino. Nonostante possano essere ricavati in maniera continua, queste misure risultano meno affidabili rispetto a quelle associate ai flussi di lava a causa di alcuni fattori legati alla variazione nei tassi di sedimentazione, a una magnetizzazione più debole e a processi di natura biologica che possono influire sull’informazione relativa al campo magnetico.
Nell’immagine, i co-autori dello studio Rob Coe e Trevor Duarte mentre analizzano campioni di rocce laviche presso l’Haleakala National Park, Hawaii, nel 2015. Credit: B. Singer
Il secondo insieme di dati deriva dalla variazione temporale delle concentrazioni di berillio così come sono rimaste preservate nelle carote di ghiaccio dell’Antartide. Il berillio viene prodotto quando i raggi cosmici colpiscono l’atmosfera. Ciò vuol dire che i periodi in cui il campo magnetico era più debole, quando cioè avviene un passaggio più elevato di radiazione attraverso l’atmosfera, possono essere identificati dall’incremento di berillio presente nelle carote di ghiaccio.
Una volta combinate le diverse datazioni, i ricercatori hanno ricostruito la storia del campo geomagnetico nel corso di un periodo di oltre 70 mila anni, centrato attorno all’ultima completa inversione, detta di Matuyama-Brunhes, avvenuta circa 784 mila anni fa.
Gli autori trovano che l’ultima inversione magnetica è durata meno di 4000 anni, relativamente rapida rispetto agli standard geologici. Ad ogni modo, essa fu preceduta da ben due escursioni nel corso di un periodo di instabilità durato 18 mila anni, più del doppio rispetto a quanto suggerito da studi più recenti.
“Ho lavorato a questo problema per 25 anni”, conclude Singer. “Ed ora, mai come prima, abbiamo finalmente un archivio di dati più ricco e migliore che ci permette di trarre conclusioni più attendibili”.
Insomma, man mano che l’affidabilità e la precisione delle datazioni delle rocce vulcaniche e di sedimentazione continuerà a migliorare, gli scienziati si aspettano che gli indizi associati alle escursioni magnetiche si mostreranno in maniera sempre più evidente e frequente.