SOCIETÀ

Affido: una "famiglia in più" per accompagnare i più piccoli

L’ultimo rapporto del ministero del Lavoro e delle Politiche sociali su Bambini e ragazzi in affidamento familiare e nei servizi residenziali per minorenni restituisce numeri in controtendenza rispetto agli anni precedenti. Se nel 2020 gli affidi risultavano essere 12.815, in linea con un trend in calo, nel 2021 si raggiunge una quota di 13.248, che rappresenta l’1,4 per mille della popolazione minorile residente in Italia. I dati esposti si riferiscono esclusivamente all’affidamento familiare residenziale per almeno cinque notti alla settimana e tralasciano tutte quelle forme di affidamento che non prevedono l’allontanamento del bambino dalla sua famiglia, come l’affidamento diurno o a tempo parziale. I minori possono essere affidati anche a comunità residenziali e nel 2021 i casi di questo tipo sono stati 14.081. 

“Rispetto alla maggior parte dei Paesi europei - sottolinea Paola Milani, professoressa di pedagogia generale all’università di Padova e fondatrice di LabRIEF, Laboratorio di ricerca e intervento in educazione familiare -, l’Italia ha pochi bambini in affido. Siamo un Paese poco propenso ad allontanare i minori dalla famiglia di origine: i bambini e le bambine con meno di 18 anni collocati fuori famiglia sono intorno ai 25.000 complessivamente. In Francia sono quasi 300.000”. In Italia persiste probabilmente l’idea che la famiglia sia un terreno intimo e privato.  “Abbiamo inoltre un sistema di servizi, di welfare, di tutela molto meno evoluto di Paesi come Francia o Inghilterra, che intercetta poco problemi di questo tipo”. 

Dagli orfanotrofi all’affidamento familiare

In Italia fino alla metà degli anni Settanta bambini e bambine privi di una famiglia o con una situazione familiare fortemente problematica venivano solitamente collocati negli istituti. In seguito tre leggi fondamentali, la 184 del 1983 (Disciplina dell’adozione e dell’affidamento dei minori), la 328 del 2000 (Legge quadro per la realizzazione del sistema integrato di interventi e servizi sociali) e la 149 del 2001 (Diritto del minore ad una famiglia) cambiano profondamente lo stato delle cose: è proprio quest’ultima legge a sancire la chiusura degli orfanotrofi entro il 31 dicembre 2006, e a stabilire che i minori vengano accolti in case-famiglia, famiglie affidatarie o adottive. 

Nelle Linee di indirizzo per l’affidamento familiare, che offrono un quadro di riferimento operativo per le Regioni, l’affido viene definito una forma di intervento che aiuta “una famiglia ad attraversare un periodo difficile, prendendosi cura dei suoi figli attraverso un insieme di accordi collaborativi tra le famiglie affidatarie e i diversi soggetti che nel territorio si occupano della cura e della protezione dei bambini e del sostegno alla famiglia”.  L’obiettivo è consentire il ritorno dai genitori: la famiglia affidataria infatti è una “famiglia in più” e non si sostituisce a quella dei bambini accolti. Alla base del temporaneo allontanamento dei minori, solo per citare un paio di esempi, possono esservi problemi di maltrattamento e incuria o di dipendenza di uno o entrambi i genitori.

Affido familiare: progetti personalizzati per i più piccoli

L’affidamento familiare può essere consensuale e in questo caso è disposto dai servizi sociali in accordo con la famiglia e con ratifica del giudice tutelare, oppure giudiziale quando è disposto dal tribunale per i minorenni, nel caso in cui non vi sia il consenso da parte dei genitori. “La legge 149  – osserva la docente – sottolinea che ogni minore ha diritto a vivere in famiglia. Dunque anche chi non può rimanere nel proprio nucleo di origine ha diritto a crescere in un contesto di tipo familiare e ciò significa che dobbiamo garantire a ogni bambino o bambina un progetto personalizzato a seconda dei casi e delle necessità. Esistono, per esempio, diverse tipologie di affido familiare. L’affido può essere intrafamiliare o eterofamiliare, cioè all'interno della rete parentale o in una famiglia estranea alla rete parentale, o ancora in una comunità di tipo familiare”. 

La forma forse più nota è l'affidamento familiare residenziale a tempo pieno, caso in cui il minore viene accolto e vive stabilmente nell’abitazione della famiglia affidataria, in genere non più di 24 mesi. Qualora se ne ravvisi l’opportunità, però, il periodo può essere prolungato. Stando ai dati del rapporto ministeriale sopra citato alla fine del 2021 più della metà degli affidamenti mostra una durata superiore ai due anni (61%): quasi il 23% dai due ai quattro anni, percentuale che raggiunge quasi il 38% per le permanenze oltre i 4 anni.

Le linee guida nazionali promuovono anche altre forme di affidamento che non implicano necessariamente la totale separazione del bambino dalla sua famiglia: “I minori possono stare in affido durante la settimana, ma tornare a casa il sabato e la domenica, oppure possono trascorrere solo il pomeriggio con il nucleo che li accoglie. In questo caso si tratta di affidi semiresidenziali o part time: la famiglia affidataria, per esempio, può occuparsi di andare a prendere il bambino a scuola, trascorre con lui le ore pomeridiane, riportandolo a casa dalla sua famiglia per cena”. Lo scopo è dare un sostegno volto a evitare, per quanto possibile, l’allontanamento del bambino dalla famiglia di origine. “Esiste inoltre la possibilità di far evolvere queste diverse tipologie di affido all’interno di uno stesso progetto – sottolinea Milani –, per cui un minore può iniziare con un affido residenziale, andando a vivere a tempo pieno in un'altra famiglia, ma nel tempo attraverso un progetto di riunificazione familiare si costruisce la possibilità di avere dei contatti con il nucleo di origine, di dormire una notte alla settimana a casa, via via poi più frequentemente, fino a un eventuale rientro in famiglia”.

Chi può accogliere bambini e bambine? Non solo coppie

A differenza di quanto accade in caso di adozione, il bambino può essere affidato a una coppia ma anche a una persona singola, in grado di assicurargli il mantenimento, l'educazione, l'istruzione e le relazioni affettive di cui ha bisogno. “Il fatto che anche chi è single possa dare la propria disponibilità offre molte più possibilità ai bambini. C’è inoltre un’altra fascia di popolazione, che sono le coppie con figli ormai adulti, che sta diventando una risorsa importante per i servizi di affido, perché si tratta di persone ancora giovani, con buone risorse fisiche, affettive ed emotive, e con disponibilità di tempo se si considera che magari sono vicini all’età della pensione. Se la legge per l'adozione stabilisce che non si possa avere più di 45 anni di differenza con il bambino, questo non vale in caso di affidamento e ciò garantisce molto i minori”. 

I centri per l’affido e la solidarietà familiare (Casf) programmano corsi di formazione rivolti alle famiglie che desiderano avvicinarsi a questa forma di accoglienza, durante i quali vengono fornite tutte le informazioni utili. “Già in questa fase chi è interessato riesce a fare un'autovalutazione, e a capire se potrebbe essere in grado di dare o meno la propria disponibilità. Dopo il corso di formazione l'équipe degli operatori tiene dei colloqui mirati con le famiglie candidate all’affido. Si tratta di un percorso valutativo molto più leggero di quello previsto per le famiglie adottive, in cui si tiene conto soprattutto delle disponibilità che danno i potenziali affidatari. Per arrivare all'abbinamento con il bambino si valuta il contesto in cui vive l'eventuale famiglia, l'età, il tempo a disposizione, la presenza di figli o meno”. I bambini hanno bisogno di trovare dei punti di riferimento affettivi nella famiglia affidataria. “È importante che questa abbia il tempo per seguirli e una rete parentale o amicale di supporto. Ed è fondamentale la solidità familiare”.

Prevenire l’allontanamento: il programma Pippi nel Piano nazionale interventi sociali

Nel nostro Paese bambini e bambine vengono dati in affidamento solo in presenza di difficoltà molto importanti in ambito familiare. I minori, spiega Milani, rimangono con gli affidatari per lungo tempo, poiché si tende a separare il bambino dalla sua famiglia quando la situazione è molto grave, senza accorgersi prima delle vulnerabilità in cui versa il nucleo di origine. Per questa ragione alla fine del 2010 nasce Pippi-Programma di intervento per la prevenzione dell’istituzionalizzazione: lo scopo è di costruire una rete di servizi (molto debole in Italia) per prevenire il rischio di allontanamento. Famiglia e operatori, dunque, progettano insieme i cambiamenti necessari per migliorare le condizioni di vita del bambino, attraverso dei percorsi condivisi che aiutino a individuare modalità per stare bene con i propri figli. Dal 2011 a oggi il programma, che è il risultato della collaborazione tra il Laboratorio di ricerca e intervento in educazione familiare dell’università di Padova e il ministero del Lavoro e delle Politiche sociali, ha coinvolto più di 400 ambiti territoriali sociali, distribuiti in tutte le Regioni e Province autonome, e più di 10.000 famiglie in situazione di vulnerabilità. Negli anni sono stati coinvolti anche genitori che erano già stati separati dai figli: “Circa il 10% delle famiglie hanno iniziato il loro percorso con Pippi quando il bambino era già in affido e in quel caso si è lavorato per favorire il processo di riunificazione familiare”.  

A distanza di circa dieci anni dalla sua istituzione, il programma Pippi è stato ora inserito tra i livelli essenziali delle prestazioni in ambito sociale (Leps) nel Piano nazionale interventi sociali 2021-2023. “Siamo molto soddisfatti del tipo di ricerca che abbiamo condotto – conclude Paola Milani –, perché ci ha permesso non solo di acquisire nuove conoscenze, ma anche di costruire nuove politiche, e ciò sul lungo periodo può garantire i diritti di bambini e bambine e modificare la vita delle persone”.  

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