Gli insegnamenti di questa lunga pandemia che non si sa ancora sino a quando e quanto invadente sarà, sono molti. E sono inviti alla riflessione: sulle cause, sui rimedi, sulle possibilità di resilienza e/o di adattamento.
Ciò induce a ripensare la città dopo la pandemia. La città, certamente. Anche perché da qualche decennio la città è diventata il principale luogo di vita per oltre il 50% della popolazione mondiale. Vale a dire che circa 4 miliardi di persone operano in questi ambienti e che, molto verosimilmente, diventeranno il 75% entro fine secolo. Il che significa che fra ottanta anni è molto probabile che vivranno nelle città tanti quanti oggi costituiscono l’intera popolazione terrestre.
La città, dunque. La quale, per il modo in cui è cresciuta e si è rapidamente popolata con un costante incontrollato inurbamento, è diventata il principale laboratorio di inquinamento e di emissioni inquinanti in atmosfera. Inquinanti tra i quali sono soprattutto presenti i gas serra alla base del mutamento climatico in atto. Mutamento che si può ben considerare come un’altra pandemia e dalla durata più lunga e complessivamente più pericolosa di quella da Covid-19 del quale è, verosimilmente, concausa.
Dunque rigenerare la città? Ma la città non è un organismo pensante; sono i suoi cittadini che vanno rigenerati: nei quotidiani comportamenti prendendo spunto proprio dalla pandemia sanitaria.
Ce lo ha insegnato il primo rigido confinamento in casa del 2020. Ne scrivo soprattutto per la “mia” Napoli, e dintorni, ma la riflessione è esportabile in tanti altri casi.
Personalmente non amo che le disgrazie possano essere anche considerate “un’occasione”; ma credo concretamente che dalle disgrazie si possano trarre insegnamenti.
È il caso della pandemia di coronavirus che ha almeno contribuito a dare una lezione. Sta a noi trarne l’insegnamento. Da febbraio 2020 – presumibile inizio della pandemia – e, soprattutto, dall’8 marzo, data di inizio del confinamento, al successivo 4 maggio – inizio della cosiddetta fase 2 – le cronache, anche col supporto visivo di droni, hanno mostrato un inatteso mutamento della qualità dell’ambiente in almeno tre fondamentali componenti: l’acqua (di mare, fiumi e laghi), l’aria, il suolo.
L’acqua marina, soprattutto, che in una regione come la Campania, nella quale il litorale costiero dalla provincia di Caserta al Cilento salernitano costituisce una presenza molto importante. Importante, ma la sua qualità è stata per anni messa in discussione soprattutto lungo il litorale napoletano, a causa della rilevata presenza di inquinanti di origine batteriologica e chimica, sino a vietarne (dopo l’epidemia colerica del 1973) balneazione ed elioterapia.
Tanto che più volte è venuto spontaneo richiamare alla memoria il titolo del capolavoro di Anna Maria Ortese Il mare non bagna Napoli (Einaudi, Torino, 1953). In realtà, pur con giuste perplessità sulla sua qualità, il mare bagna Napoli. Poi in piena primavera del 2020 si è scoperto che grazie (grazie?) al coronavirus il mare ha assunto caratteristiche tali da farne risaltare anche l’estetica bellezza. Le acque sono ritornate chiare, fresche e limpide come nessuno più le ricordava. Né solo in città. Anche il lungo Litorale Domizio nel Casertano sembra diventato “più bello”. Fenomeno esaltato anche nelle aree che sembravano esenti da problemi del genere, come le isole Capri, Procida, Ischia e il Cilento. Né solo il mare: altrettanto è valso per i laghi Flegrei e addirittura per il Sarno, il fiume tra i più inquinati d’Europa.
Come è perché?
La risposta più ricorrente è stata che la natura si è ripresa lo spazio toltole dall’uomo. E così si sono individuate causa ed effetto: l’uomo. Esseri umani la cui presenza ha progressivamente snaturato gli ambienti di vita rendendoli anche qualitativamente meno vivibili. Sino a quando la natura, appena ha potuto, ha recuperato la sua presenza. E ha potuto quando, a causa della diffusione del coronavirus e della quarantena che ne è conseguita, la presenza umana è diventata dovunque sempre meno numerosa e invadente. E tutte le attività svolte quotidianamente e generalmente incuranti del loro negativo impatto sulle componenti ambientali, si sono ridimensionate o si sono del tutto fermate: attività industriali, vita domestica, riduzione drastica della mobilità a motore.
L’aria, misurata anche dalle apposite centraline, è diventata molto più respirabile; le strade molto più pulite e sgombre di rifiuti, prodotti anche in minore quantità. E pare che per questi motivi si siano visti sempre più delfini sguazzare nelle acque del golfo di Napoli. Perfino le acque del Sarno erano ridiventate limpide e trasparenti lungo tutto il breve corso del fiume così come alla sorgente. E il colore. Il colore del mare a via Caracciolo, a Castelvolturno, nel Cilento, come non si era mai visto; o pochissimi ricordavano di averlo visto così.
Sino al 4 maggio con il sospirato “liberi tutti”. Dal giorno dopo le cose hanno cominciato a cambiare: il Sarno si è ripreso i suoi colori e le porcherie che li provocavano; a Castelvolturno una immensa macchia nera ha cambiato i connotati al mare.
Insomma, se quella individuazione di causa ed effetto di cui dicevo è corretta, tutto questo è ciò che accadrebbe se mai si verificasse la sesta estinzione di massa paventata da molti studiosi dei mutamenti climatici. Infatti, come ci ricordano etologi come Danilo Mainardi ed Enrico Allevi, nei milioni di anni passati dopo ciascuna delle cinque precedenti estinzioni vi è sempre stato un “rigoglio evolutivo” dovuto alla scomparsa delle cause che le avevano provocate.
Allora? Per riavere mare, fiumi, laghi, aria, strade come la natura ce li ha dati perché li vivessimo senza far danno a lei e a noi, occorre che l’umanità scompaia e che città come Napoli si spopolino?
“ Non è questa la lezione del coronavirus
Che, invece, ci insegna che possiamo riprendere la vita in una città diversa in quanto migliorata nella sua qualità ambientale e, quindi, più sicuramente vivibile.
E tutto senza che vi siano stati interventi di disinquinamento di acqua, aria, suolo. Ma, e qui sta la lezione da imparare, tutto ciò è avvenuto “solo” perché siamo stati costretti a comportamenti che si sono rivelati virtuosi.
Ma comportarsi bene significa non fare nulla e starsene a casa? Certamente no. La lezione ci dice che possiamo fare tutte le cose cui siamo abituati, senza compromettere la qualità dei ricettori acqua, aria suolo. Cioè: senza scaricare in mare e fiumi porcherie solide e liquide a tutto vantaggio della recuperata balneabilità, del piacere di rivedervi i pesci (anche se di qualche specie ci priveremo per vederli poi sulle nostre tavole) e di fornire materiale di studio alla Stazione zoologica Anton Dhorn; senza scaricare in aria i prodotti della combustione automobilistica utilizzando l’auto solo se e quando necessario; senza scaricarvi i prodotti della climatizzazione artificiale degli ambienti costruiti (case, scuole, uffici, luoghi di svago, luoghi di culto), che possono sempre più agevolmente ottenere questo risultato con l’energia solare; producendo meno rifiuti e ponendoli a tempo, ora e luogo nei loro contenitori e non sul suolo pubblico.
Questa è l’importante differenza tra la pandemia da Covid-19 e quella climatica: la prima può indurci a puntare sulla resilienza; la seconda può farci puntare soprattutto sull’adattamento.
Significa che la rigenerazione dei modi di produrre, consumare, vivere può generare un “virtuoso” ritorno alla vita quotidiana (resilienza) momentaneamente compromesso dalla persistenza della pandemia; il mutamento climatico che abbiamo alle spalle, che si manifesta nel presente e che, come che si intervenga, si proporrà nel futuro, non consentirà di ritornare a “come era prima”, e consiglierà soprattutto un adattamento a una realtà irreversibilmente mutata.
Ma chi vivrà, se vorrà e potrà, vivrà bene lo stesso.