Nel contesto di una pandemia che ha stravolto le vite di molte persone, comunità e famiglie, restringendo in breve tempo lo spazio teoricamente possibile del mondo allo spazio obbligato della casa, sono stati in molti (“archistar” comprese, spesso in discontinuità con i loro progetti) a parlare di ritorno alle aree interne, ai piccoli borghi e così via. Rispetto a questo coro che invita con leggerezza a lasciare la città per i piccoli borghi e le aree interne, una riflessione “territorialista” evidenzia invece la necessità di cambiare il modello complessivo di produzione dello spazio urbano e rurale nel suo insieme (il riferimento è alle riflessioni sviluppate nell’ambito della Società dei territorialisti/e e della rivista che essa promuove: Scienze del territorio, la quale a «Abitare il territorio al tempo del Covid» ha dedicato un numero speciale nel 2020, a cura di Anna Marson e Antonella Tarpino,. Il presente testo riprende l’Introduzione delle due curatrici).
Questa necessità sta assumendo una nuova centralità e urgenza con il prolungarsi dell’orizzonte temporale della pandemia e dei suoi effetti sui nostri modi di vivere, abitare, produrre. Quella che inizialmente tendeva a essere percepita come una crisi che accelerava la necessità di riconsiderare una serie di dinamiche e di relazioni fra abitanti e territori, va producendo cambiamenti strutturali profondi, la cui direzione è soltanto in parte ipotizzabile.
La pandemia come episodio della crisi ambientale del pianeta, e delle modalità con cui viene governata
La prima questione è come “leggere” la pandemia in atto: per chi come noi si occupa del futuro dei nostri territori e delle condizioni in cui abiteremo il nostro pianeta è fondamentale allargare lo sguardo dalle cause ultime dello sviluppo del virus e sui trattamenti specifici che possono renderlo meno offensivo, per comprendere le relazioni tra nuovi virus e condizioni ecologiche globali e locali.
La pandemia attuale, se osservata da un punto di vista più ampio, non appare più come un evento isolato, ma come uno dei molti episodi inscritti nella cornice della crisi ambientale globale. Questa connessione, riconosciuta da molti autorevoli esperti (da National Research Council, 2001, Under the Weather. Climate, Ecosystems and Infectious Disease, National Academies Press, Washington DC, a Morens D.M. e Fauci A.S., 2020, Emerging Pandemic Diseases: How We Got to COVID-19, Cell, Vol. 182, n. 5, pp. 1077-1092), è stata ed è tuttora purtroppo sottovalutata e sostanzialmente ignorata dalla politica e dai principali attori rilevanti a livello globale, che ritengono invece più conveniente un atteggiamento riduzionista, se non addirittura negazionista.
Il collasso ambientale e climatico in corso, identificato oramai da una moltitudine di indicatori quantitativi e qualitativi, è destinato a produrre un complesso di eventi critici rispetto ai quali la pandemia in corso rappresenta soltanto un primo assaggio. Il crescente rischio di innesco di cambiamenti brutali e irreversibili – tipping points – è oramai un dato di fatto accertato. Questa drammatica prospettiva si potrebbe attenuare soltanto con tempestive azioni globali indirizzate a trattarne le cause, e non soltanto gli effetti (Mercalli L., 2020, Non c’è più tempo. Come reagire agli allarmi ambientali, Einaudi, Torino; Viale G., 2020, “Il futuro è già qui”, in Marson A. e Tarpino A., 2020, a cura di, pp. 160-168).
Il trattamento dei soli effetti della crisi, paradossalmente ma non troppo, mette invece in gioco come strategia privilegiata metodi emergenziali di ‘sorveglianza’ che reprimono le libertà sociali degli individui e delle loro comunità, anticipando scenari tragici per il futuro della democrazia.
Le politiche a livello globale, pur riconoscendo le relazioni tra qualità complessiva del territorio e rischi anche sanitari, si concentrano infatti non tanto sul migliorare lo stato degli ecosistemi, bensì sullo sviluppare capacità di sorveglianza sulla base di dati raccolti da piattaforme digitali, anziché da rapporti ufficiali dei ministeri e dei servizi sanitari nazionali. Poiché, se l’algoritmo – le cui previsioni si sono dimostrate spesso inaffidabili – prevale sui dati statistici, viene meno anche la possibilità di proporre politiche alternative sulla base di dati pubblici attendibili e condivisi (Marzocca O., 2020, Biopolitics for beginners. Knowledge of life and government of people, Mimesis, Milano), e si concretizza la minaccia, relativa a un’evoluzione in senso totalitario “frutto della gestione tecnocratica e su scala mondiale della società e della natura”, sulla quale Murray Bookchin richiamava la nostra attenzione già molti anni fa (Bookchin M., Remaking Society. Pathways to a Green Future, South End Press, Boston, MA, 1989; edizione italiana: Per una società ecologica. Tesi sul municipalismo libertario e la rivoluzione sociale Elèuthera, Milano, 1989).
Il presupposto implicito della scelta di concentrarsi su politiche di sorveglianza è che i fattori ecologici, politici ed economici alla base sia delle epidemie che della crisi ambientale planetaria non possano essere affrontati, perché ciò richiederebbe un sovvertimento del modello di sviluppo in atto, delegittimando la sempre più spinta finanziarizzazione globale e la corsa inarrestabile verso metropoli, megalopoli e regioni intensamente urbanizzate, riportando invece l’attenzione sui territori e la loro qualità biotica.
La trasformazione delle città-regione in piattaforme territoriali che iperindustrializzano la vita quotidiana per produzioni dipendenti dai flussi globali (Bonomi A., 2021, Oltre le mura dell’impresa. Vivere, abitare, lavorare nelle piattaforme territoriali, Derive Approdi, Roma) rappresenta la crisi ultima del legame fra l’abitante e la materialità del territorio che ne garantiva sia i cicli vitali di riproduzione che un’effettiva partecipazione politica. Le metropoli e le megalopoli postmoderne stanno spingendo verso conseguenze estreme sia i processi di valorizzazione finanziaria e di depoliticizzazione dello spazio della città che l'alienazione della vita urbana ed extraurbana dai suoi contesti eco-territoriali, creando ambienti ideali per l'innesco di emergenze non soltanto sanitarie, ma più in generale biopolitiche.
Rimettere al centro i territori e la loro qualità biopolitica non è un atteggiamento passatista e nostalgico, ma una prospettiva di futuro. L'approccio territorialista, rovesciando l’adesione acritica ai processi di urbanizzazione globale e sempre più estrema artificializzazione dei rapporti uomo-ambiente, assume il territorio come oggetto privilegiato di cura e riproduzione, in quanto bene comune degli abitanti dei luoghi. Il concetto di bioregione urbana (Magnaghi A., 2020, Il principio territoriale, Bollati Boringhieri, Torino) si concentra sull'esigenza di ricostruire i rapporti della città con la complessità biosferica ed antropica del suo contesto ecosistemico, quali presupposti di una nuova urbanità, alternativa all’incubo di un pianeta socialmente e ambientalmente invivibile governato dagli algoritmi.
La pandemia come eccezione che mette a nudo l’equivoco dell’eterno presente
Da molti punti di vista la pandemia sta mettendo a nudo come ciò che consideriamo la normalità, l’illusione dell’eterno presente, sia invece un grande equivoco, che sottende dinamiche e processi che stanno accentuando le diseguaglianze e avvelenando letteralmente e metaforicamente i nostri contesti di vita. Al tempo stesso evidenzia resilienze sociali ed ecologiche che non erano così evidenti, e possibilità di progettare un diverso futuro: mai le fragilità dei sistemi territoriali prodotti dalla globalizzazione sono stati così evidenti, e la necessità di un cambiamento del modello insediativo così decisiva e urgente.
A questo riguardo è utile riflettere su come stiano cambiando i nostri sguardi e quali siano le cornici di senso utili per agire. A partire dalla dimensione spazio-temporale del nostro “abitare” le case, il territorio, il mondo.
La nuova realtà pandemica e le sue incidenze sulle forme stesse dell’abitare ci costringono a fare i conti con la dimensione spazio-temporale dei processi in atto. A partire anzitutto dall’idea nefasta che il nostro tempo, in epoca di globalizzazione e sincronie digitali, sia un unico indistinto presente, definito non a caso dallo storico francese François Hartog (Hartog F., 2003, Régimes d’historicité: présentisme et expériences du temps, Seuil, Paris; edizione italiana: Regimi di storicità: presentismo ed esperienze del tempo, Sellerio 2007) “presentismo”: una dimensione dispotica e totalizzante del tempo che, per una sorta di autoreferenzialità patologica, non riconosce altro da sé. Mentre le temporalità altre, siano il passato ma ancor più il futuro, vengono ridotte a numeri o algoritmi. È così che il nostro presente, sotto il segno ultratemporale di un “nuovo” sempre sotto controllo, intento, con stanca ritualità, a celebrare quasi inerzialmente se stesso, si trova a fronteggiare il suo contrario: il ritorno delle antiche pestilenze di sapore biblico o anche solo tre-seicentesche. Una contesa letale che sembrava fuori corso, quella fra il “sempre nuovo” del presente e il “vecchio-vecchio” del passato, si è improvvisamente materializzata nel Coronavirus. È così che, sotto il peso di antichi flagelli che incombono sui nostri spazi quotidiani di vita, la contemporanea civiltà di sistema scopre una inedita, questa sì, fragilità, all’altro capo di quel filo spezzato del processo di coevoluzione tra natura e cultura che nei millenni ha generato il territorio: un sistema vivente ad alta complessità secondo il “principio territoriale” cui si richiama del resto da tempo nella sua riflessione Alberto Magnaghi (Magnaghi A., 2020, Il principio territoriale, Bollati Boringhieri, Torino). Covid non è dunque la causa della attuale crisi, ma l’esito letale della rottura del processo coevolutivo, connesso con altre crisi ambientali reciprocamente interagenti. I disastri sono acceleratori di processi sociali già in atto, e la recente pandemia ha portato allo scoperto la fragilità di un modello di urbanizzazione planetaria che presenta, seppur con tecnologie e scale diverse, moltissime analogie con la crisi della città mondo-romana deflagrata in seguito alle pandemie, mostrandoci l’insostenibilità anche sul piano storico dei nostri modi di abitare la terra (Harper K., 2017, The Fate of Rome. Climate, Disease, and the End of an Empire, Princeton University Press, Princeton NJ; edizione italiana: Il destino di Roma. Clima, epidemie e la fine di un impero, Einaudi, Torino 2019).
Le epidemie sono certo uno dei fenomeni ricorrenti sul lungo periodo storico che hanno inciso sui territori, contribuendo alla definizione delle loro specificità. Migrando da un luogo all’altro hanno assunto localmente caratteristiche precise e diverse, contribuendo a creare delimitazioni spaziali e sociali che hanno lasciato tracce importanti nella coscienza sociale collettiva, modificando nel periodo di incidenza gli orizzonti relativi, circoscritti e allargati delle componenti antropiche dei luoghi interessati (Carle L., 2020, “Epidemie e coscienza sociale collettiva nel lungo periodo”, in Marson A. e Tarpino A., cit., pp. 53-62).
Il passato torna allora nel nostro presente, al tempo del Covid, saldamente collegato col futuro. Perché le epidemie portano alla luce strutture nascoste, rivelando le priorità e i valori cogenti per le popolazioni. Così, seguendo ancora il lavoro degli antropologi, ritrovano spazio e valore, al tempo del Covid, le comunità locali legate ai luoghi fisici, al volontariato operativo, alle solidarietà che si fanno associazione o rete, spesso sovrapponendosi però a quelle più futuribili dei social e di Facebook (Clemente P., 2013, Le parole degli altri. Gli antropologi e le storie della vita, Pacini Editore, Pisa; Clemente P., 2020, “Piccoli paesi nell’ondata del virus. Resistenza, democrazia, comunità”, in Marson A. e Tarpino A., 2020, a cura di, pp. 44-52). Con numerose ‘cooperative di comunità’, al servizio di un certo territorio, che erogano servizi ad anziani e a persone fragili. Stanno tra mondo virtuale e mondo delle relazioni legate ai territori, con fisionomie lontanissime dal mondo contadino del passato.
Lungo questa deriva al confine tra esperienze tradizionali e nuovi saperi, centrati sul territorio, si collocano le pratiche sociali resilienti evidenziate proprio dal Covid: tendenze a economie neorurali che prendono piede ovunque – anche nelle grandi città come Milano – risvegliano modalità mutualistiche, di volontariato, di autogestione, di sostegno agli ultimi da parte dei penultimi. Alcuni soggetti collettivi le hanno tenuto vive in questi anni, ma ora hanno trovato un consenso fattivo nelle pratiche che hanno coinvolto molte più persone e attivisti, non solo nei luoghi ai margini.
Ecco che dentro questi processi è la stessa polarità centro-periferia a venir meno nel ridisegno delle pratiche sui territori. In Lucania come nelle piccole realtà alpine ripopolate: Ostana, piccolo Comune virtuoso delle Alpi piemontesi, che ha saputo tuttavia approfittare della pandemia per elaborare uno scenario di sviluppo locale con la costituzione di una cooperativa di comunità, con progetti rivolti alla socialità, al turismo, alla promozione del territorio, alla cultura, alla neo-agricoltura. Con un’idea di “resilienza” soprattutto che ha più a che fare col “dopo”: il possibile costruirsi di desideri, immaginari, proiezioni al futuro di una “vita diversa”. O Gandino, nel bergamasco, che riscopre ed espande, mediante numerose cooperative, la coltura del mais. Esperienze centrate entrambe, pur nella patente diversità, su “strategie multi-obiettivo e trans-settoriali” secondo un disegno di cooperazione non settoriale ma comunitaria (De La Pierre S., 2020, “Segnali di resilienza rispetto al Covid. I casi di Ostana e Gandino”, in Marson A. e Tarpino A., 2020, a cura di, pp. 79-88). Un abitare, in particolare nelle aree interne, che sta già prefigurando modi di “fare-luogo“ situati e alternativi all’approccio urbano-centrico nelle zone dell’”osso”, come definite da una celebre metafora (Rossi Doria M., 1958, Dieci anni di politica agraria, Laterza, Bari).
Processi a tutti gli effetti di “ritorno” ai territori d’origine sono stati riscontrati fin dai primi giorni di questa emergenza Covid. Dal Nord verso il Sud dell’Italia, ma anche dai centri urbani verso i villaggi, dalla costa verso l’interno, dalla pianura verso le montagne. I numeri sono ancora piccoli per parlare di una inversione di tendenza rispetto al decennale spopolamento di certe aree (Teti V., 2017, Quel che resta. L’Italia dei paesi tra abbandoni e ritorni, Donzelli, Roma), però qualcosa sta succedendo e impone una riflessione, anche qui, sul tipo di rinascita che si prospetta.
Il ribaltamento del rapporto tra pieno e vuoto nelle regioni italiane, la desertificazione delle aree montane e collinari e l’intasamento sregolato delle pianure costiere e delle valli, infatti, dipende non solo da scelte locali e nazionali, ma anche da una linea strategica di portata globale. In relazione al Sud insulare è interessante la ricerca di chi (De Candia L., Cannaos C. e Lutzoni L., 2018, I territori marginali e la quarta rivoluzione urbana. Il caso della Gallura, Guerini Associati, Milano) prova a traguardare alcuni fenomeni di ripopolamento in atto da alcuni anni nelle campagne della Gallura, nel nord-est della Sardegna, oggi accelerati dalla comparsa della pandemia, mettendo in risalto come nelle pieghe di questo territorio uno “sciame di nuovi abitanti”, spesso provenienti dalle metropoli del continente, stia provando, in forme tutte ancora da interpretare, a costruire nuovi modi di abitare la terra oltreché a riproporre nuove relazioni vitali con la natura.
Forse al crollo di un impero, quello nostro, occorre trovare le risorse inattese nel declino stesso: risorse che spesso si ritrovano ai margini, per l’appunto, nei movimenti sottotraccia, “nel profondo di quelle immagini che si muovono come lucciole o astri isolati” – è la lezione di George Didi-Huberman (Didi-Huberman G., 1975, Survivance des lucioles, Les Editions de Minuit, Paris; edizione italiana: Come le lucciole. Una politica delle sopravvivenze, Bollati Boringhieri, Torino 2010) – capaci di fare emergere inedite energie. Capaci di fare incontrare il passato con l’adesso. E forse col nostro futuro.
Cambiare il rapporto tra economie e territori
La pandemia da Covid ha fatto emergere con straordinaria evidenza limiti e fragilità del rapporto prevalente tra economie e territori. È ormai abbastanza chiaro come le molteplici crisi permanenti e sovrapposte (finanziaria, economica, ecologica e di giustizia sociale) che aggrediscono sempre più pesantemente la convivenza umana e i nostri stili di vita, non siano subite allo stesso modo dalle diverse componenti delle nostre comunità, e dai diversi sistemi territoriali.
Il virus si è mosso ripercorrendo quasi palmarmente la geografia economica (le vie del business e le aree di più intensa interattività commerciale e produttiva (Revelli M., 2020, “Il lavoro del virus e il virus del lavoro nelle mappe di territorio”, in Marson A. e Tarpino A., 2020, a cura di, pp. 108-117). E soprattutto con una consistente selettività sociale, colpendo duro in basso e risparmiando maggiormente i più affluenti: a Milano nei primi mesi del 2020 la pandemia è stata quasi assente nei quartieri della upper class, concentrandosi nelle aree dove è stoccata la forza-lavoro del back office, addetti alla logistica e ai servizi poveri, alle attività di cura e alla manovalanza nella distribuzione e nella componentistica.
In Italia il virus si è diffuso e ha galoppato, soprattutto nella fase iniziale e esplosiva del contagio, non tanto nelle aree genericamente “molto popolate” o con età media della popolazione più avanzata, ma in quelle nelle quali l’interazione di breve, medio e lungo raggio è più intensa. Quelle dove maggiore è l’agglomerazione produttiva (la concentrazione di imprese), più intensi gli indici di produttività (i volumi di fatturato) e di internazionalizzazione, l’infrastrutturazione stradale e autostradale con l’interscambio di merci e persone.
Alla prova del virus il cosiddetto capitalismo delle reti, sistema totalmente integrato su scala globale che funziona con la logica del just in time, non ha retto la sfida rivelando tutta la propria strutturale “fragilità”. Fragilità di una geografia delle megalopoli e delle “città stato”, di nodi logistici e di altre specializzazioni monofunzionali nelle reti dei flussi globali. La trasformazione (modernizzazione?) in corso, trainata dall’imporsi delle piattaforme digitali, fa grande fatica a tradursi in civilizzazione diffusa. Apparentemente immateriale, questa trasformazione impatta in modo consistente anche sui territori, con effetti rilevanti sulle politiche urbane, sul governo delle città, di ridefinizione delle politiche dell’abitare e dei servizi di riproduzione sociale, quindi sui mercati immobiliari, sulle reti di mobilità, ecc.
In Italia il capitalismo molecolare, che negli anni più recenti ha trainato l’economia, è a forte rischio di farsi “disagio molecolare” e mai come oggi per “temperare” questo disagio occorre praticare mediazioni operose sia per il come e cosa produrre sia sul come comunicare legame sociale.
Le tante pratiche di “società solidale” emerse in questo periodo come legami positivi fondamentali per le diverse comunità e territori non hanno tuttavia valore soltanto per temperare la crisi in atto, ma ci indicano la possibilità di un diverso modello socio-economico al quale è possibile tendere per il nostro futuro. L’attivazione di reti capillari di prossimità sta dimostrando non solo un’importante capacità di lettura dei bisogni, ma anche di operatività organizzativa e di intervento, con possibilità concrete di trasformazione dell’economia nei territori, dall’agricoltura ai servizi (come testimoniato dalle molteplici pratiche riportate ad esempio su https://comune-info.net/).
E sono proprio i territori di margine a dimostrare con maggiore evidenza sia le fragilità indotte dal modello di sviluppo prevalente sia le possibilità alternative. Il senso e significato dell’essere in comune emerge paradossalmente proprio là dove crisi pandemica e crisi economica hanno fatto comprendere che “nessuno si salva da solo”, mentre dalle tante solitudini si può costruire una comunità di destino. I territori che definiamo marginali sono densi di pratiche ed esperienze di intreccio “antisolitudine”, tra sostenibilità ambientale ed inclusione sociale, da portare al centro in senso letterale, per città più abitabili che riscoprono la dimensione del quartiere, e metaforico, promuovendo l’innovazione dei fini sociali e di produzione di senso collettivo. Dalle retoriche sulla globalizzazione stiamo passando a comprendere che i rischi vanno letti all’interno di una cornice di interdipendenza: tra individui, famiglie e comunità; tra metropoli e aree interne e marginali; tra economia, società e territori.
Il Covid accelera il processo di riconversione ecologica come incorporazione del limite nelle filiere produttive e nelle economie locali, ridefinendo il rapporto tra metropoli, aree dei margini ad alta dotazione di risorse ambientali e città medie. Tuttavia, senza una adeguata voce di chi abita nei territori e una rigenerazione “umanista” anche la riconversione ecologica genera forze di reazione che alimentano potenti tensioni. La “filiera istituzionale” Europa-Stato-Regioni andrebbe rafforzata, partendo dalla rappresentanza dei territori e dei loro abitanti, attraverso un dialogo più sistematico fra i vari livelli, anziché proporre l’eliminazione delle Regioni.
Gli straordinari investimenti che stanno per essere messi in campo dall’Unione europea per rendere più ambientalmente sostenibile la produzione e per progredire nella digitalizzazione, potranno effettivamente tradursi in “progresso” soltanto se la loro attuazione sarà finalizzata a ottenere una maggiore resilienza economica, sociale ed ecologica dei diversi territori, anziché finanziare le solite grandi imprese, ancorché “verdi”.
La necessità di rimettere i territori al centro del progetto di sviluppo anche economico, cercando il mix più adeguato anziché ottimizzando una specializzazione fortemente dipendente dalle reti lunghe, emerge in modo molto chiaro dagli esiti di una ricerca che tratta degli effetti economici della pandemia nei territori montani con forte specializzazione nel turismo di massa. Anche i Comuni più dotati di servizi vari (quindi apparentemente multifunzionali) hanno evidenziato un effetto moltiplicatore sulle perdite esercitato dalle attività di servizio localmente indotte dal turismo, denunciando quindi la scarsa sostenibilità economica e sociale della mancata integrazione con filiere produttive diverse, che ha amplificato la fragilità economica (e, in prospettiva, anche occupazionale) dei sistemi locali (Di Gioia A. e Dematteis G., 2020, “I rischi della specializzazione mono-funzionale turistica dei sistemi montani rivelati dal Covid-19”, in Marson A. e Tarpino A., 2020, a cura di, pp. 126-132).
In generale il rafforzamento delle reti di breve distanza, lo sviluppo di una complessità multifunzionale su misura di ciascun territorio e la creazione di relazioni dirette tra produttori e consumatori, generano, oltre a una maggior sostenibilità economica, anche approcci sociali innovativi e l’appropriazione politica del territorio “in comune” per una transizione socio-ecologica.
Un esempio efficace delle potenzialità concrete di integrare i cicli di produzione e consumo nei territori, con particolare riferimento ai territori marginali, è quello costituito dalla creazione di “comunità energetiche”. La transizione alle fonti rinnovabili, che rappresenterà una delle componenti importanti degli investimenti europei in risposta alla crisi indotta dalla pandemia, può essere attuata in modo assai differenziato, generando esiti totalmente diversi sui territori interessati. Da un lato, può mantenere la struttura funzionale dei grandi impianti di sfruttamento delle risorse, dalle grandi dighe idroelettriche ai più recenti “parchi” eolici, fotovoltaici, e ai grandi impianti a biomasse, che ottimizzano il profitto di impresa di settore, indifferenti al patrimonio territoriale locale, residuando sul territorio criticità ambientali, insediative, agroforestali e paesaggistiche. Dall’altro, può invece promuovere componenti attive e integrate di comunità territoriali orientate all’autogoverno di forme innovative di sviluppo locale, combinando aumento di produzione energetica da fonti rinnovabili, abbattimento delle emissioni di gas serra e riduzione della domanda di energia, agendo sui contesti territoriali con soluzioni appropriate localmente definite sulla base delle specificità dei luoghi. La questione dell’accettabilità sociale degli interventi e la settorialità delle politiche (che non intacca i modelli insediativi energivori) viene superata promuovendo forme di partecipazione delle comunità locali alla produzione energetica all’interno di un processo di costruzione di forme di autogoverno che le veda protagoniste di un percorso di sviluppo locale autosostenibile, a partire dalla promozione di comunità energetiche (Bolognesi M. e Magnaghi A., 2020, “Verso le comunità energetiche”, in Marson A. e Tarpino A., 2020, a cura di, pp. 142-150).
Da queste esperienze emerge come non sia in gioco il destino di una nicchia virtuosa, “verde” ed “etica”, dell’economia e della società, ma un cambio di paradigma da innescare dal basso, per affrontare i limiti del pianeta come indicazioni programmatiche per un patto di cura fra comunità e territori di vita.
Quali possibilità, oggi, di progettare il futuro delle nostre città e dei nostri territori?
Immaginare grazie al virus un nuovo futuro? “Architetti e urbanisti ci hanno sempre provato, ma, dobbiamo guardare con occhi sereni al presente e agli attrezzi che abbiamo oggi a disposizione per non ingannare noi stessi con falsi dei”, ci ricorda saggiamente Aimaro Isola (Isola A., 2020, “Il virus architetto”, in Marson A. e Tarpino A., 2020, a cura di, pp. 152-159). Tra chi si occupa del territorio, ma non solo, si fa strada autorevolmente l’idea che proprio ripartendo dallo spazio dei luoghi, dal territorio, è possibile affrontare la crisi con una prospettiva di lungo periodo.
La crisi che stiamo vivendo può infatti essere utilmente interpretata come l’ennesimo segnale in un processo storico in cui la continua ricerca di valorizzazione del capitalismo schiaccia il territorio e l’ambiente, fino a produrre un dissesto di carattere ambientale e sociale per il cui trattamento è fondamentale il ruolo del pubblico, così come ripensare la pianificazione sia alla scala macro che a quella micro. (Balducci A., 2020, “I territori fragili di fronte al Covid”, in Marson A. e Tarpino A., 2020, a cura di, pp. 169-176). Il virus e il dispiegarsi dei suoi effetti, così come gli strumenti messi in atto per trattarli, hanno messo in luce, forse mai come prima d’ora, le gravi inadeguatezze dei meccanismi che ci sovrastano, la concentrazione dei poteri in pochi centri multinazionali e la conseguente burocratizzazione delle procedure, ma anche i limiti e le incertezze dei nostri saperi. In questa situazione – per la certezza che la svolta non può più venire dall’alto, per le posizioni e per le decisioni già assunte dall’establishment politico, economico e finanziario – i luoghi d’azione più fertile sembrano collocarsi a livello dei singoli territori e delle comunità che li abitano, là dove è possibile che le iniziative dal basso abbiano efficacia e siano possibilmente replicabili.
E tuttavia, anche di fronte alle situazioni più difficili ragionare sulle possibilità ci spinge comunque a ricercare effetti inattesi e risorse latenti (Hirschman A.O., 1971, A Bias for Hope. Essays on Development and Latin America, Yale University Press, New Haven).
Il virus, il dolore, riconducono, oggi, l’attenzione al corpo, alla nostra appartenenza a una natura che si dà nella sofferenza, ma che può anche essere bellezza e bonheur. Le potenzialità sono già presenti nei luoghi, dobbiamo saperle riconoscere, attivare, moltiplicare: saperi e culture virtuose, anche se apparentemente marginali e minoritarie, sono spesso già praticate.
Lavorando sulle faglie dove il mondo si scompone e ricompone, alla ricerca di nuove ragioni di senso: paesaggi di vita più autentici, concreti, e alla fine, perché no, anche più attraenti.
In realtà le architetture e i paesaggi che oggi consideriamo come parte del nostro patrimonio, della nostra identità, sono stati plasmati anche dalle ripetute esperienze umane degli effetti di virus e batteri. Se l’invenzione dei vaccini ha interrotto questa relazione riflessiva, i nuovi virus ci obbligano in qualche modo a ripensare il rapporto tra il nostro abitare e la qualità dei territori abitati.
Se è fondamentale costruire una nuova relazione fra radicamento territoriale e dinamiche planetarie, tra cura del proprio ambiente di vita e consapevolezza dei suoi legami ecosistemici (Latour B., 2015, Face à Gaia. Huit conférences sur le nouveau régime climatique, La Découverte, Paris; edizione italiana: La sfida di Gaia. Il nuovo regime climatico, Meltemi, Milano 2020), ciò non significa limitarci ad aggiungere un’attenzione alle dimensioni ecologiche e della sostenibilità limitata a numeri e algoritmi, ma richiede di cogliere le opportunità per progettare nuovi modi di abitare le città e i territori, aggiornando innanzitutto competenze, strutture, tecniche e organi di governo «oggi gravemente sclerotizzati», come sostiene Isola (p. 154). Questione purtroppo che chiama in causa poteri diversi da quelli dei progettisti urbani e territoriali, e che rischia con molta probabilità, di essere ulteriormente “semplificata”, anziché trattata adeguatamente, per l’esigenza di spendere rapidamente i fondi messi a disposizione dall’Unione Europea per il recovery.
La questione, oggi, è innanzitutto quella del rapporto tra aree centrali e periferiche: superata ogni ipotesi di uniformare le situazioni e le dotazioni, è comunque necessario lavorare per promuovere le diverse opportunità che ciascun luogo può esprimere. Luoghi da leggere non tanto o soltanto in termini di unità, ma come esito di relazioni tra di loro intrecciate: trame, tessuti, paesaggi, corpi, ma anche il comune sentire, l’unicum estetico ed etico di patrimonio territoriale, solidarietà e responsabilità.
I contesti che maggiormente sollecitano un’azione orientata a migliorare lo stato delle cose sono da un lato le aree interne, le aree montane o di alta collina dal Nord al Sud del Paese, dall’altro le periferie delle grandi città e delle metropoli.
Da tempo l’attività progettuale delle amministrazioni delle grandi città si concentra nel rispondere alle proposte di operatori privati che riguardano i contesti di maggiore pregio, mentre le periferie sono rimaste prive di attenzione, se non da parte di gruppi di cittadinanza attiva con poche risorse.
In molti contesti europei la pandemia ha riportato l’attenzione sull’accessibilità ai servizi pubblici di base (sanità, istruzione, trasporto) e ai beni essenziali (la casa, l’acqua, il cibo), nonché agli spazi pubblici e semipubblici. Questi ultimi non vanno sottovalutati, alla scala edilizia e del disegno urbano, con minime correzioni ai regolamenti edilizi: l’attenzione di progettisti e costruttori andrebbe indirizzata verso i porticati, i balconi e le terrazze, affacciati non sulle strade trafficate, ma all’interno, in continuità con corti-giardini, i giardini e gli orti, cioè – ci indica Isola (p. 156) – «verso quelle propaggini che sono intrecci con ciò che sta attorno, philia». Questi spazi, sovente penalizzati dalle disposizioni urbanistiche – fanno superficie coperta, non si possono normare negli standard, ecc. –, sono spazi necessari perché l’abitare non sia soltanto momento della marxiana “riproduzione della forza lavoro”, ma tempo in cui corpo e spazio possano ritrovarsi amici.
Per i territori lontani dai servizi e dalle opportunità urbane, che hanno esperito un progressivo deterioramento delle condizioni di abitabilità, il tema più richiamato è quello del contrasto al digital divide per permettere l’accessibilità al telelavoro, all’istruzione, all’assistenza sanitaria e – in prospettiva – a un trasporto pubblico più efficiente e sicuro. Ma ciò non basta, se non è accompagnato dalla ricostruzione di un senso civile dello stare insieme e dell’attivarsi in un progetto collettivo di futuro capace di superare positivamente le derive populiste, mettendo in gioco il patrimonio territoriale comune, nelle sue diverse componenti materiali e immateriali (Magnaghi A., 2010, Il progetto locale. Verso la coscienza di luogo. Nuova edizione accresciuta, Bollati Boringhieri, Torino; Magnaghi A., 2020, Il principio territoriale, Bollati Boringhieri, Torino).
Ciò implica anche un profondo ripensamento, in relazione al patrimonio, del ruolo dei cittadini, ma anche dello Stato e, più in generale, di tutte le istituzioni pubbliche, superando la concezione ‘proprietaria’ del patrimonio, gli specialismi, e ribaltando la concezione del patrimonio come impedimento allo ‘sviluppo economico’, attivando – lo prevede la Convenzione di Faro con una visione pluralista, inclusiva e rispettosa delle diversità – «comunità di patrimonio» (Volpe G., 2020, “Un Faro per il patrimonio culturale nel post Covid-19”, in Marson A. e Tarpino A., 2020, a cura di, pp. 194-202).
Armandoci di “coscienza dei luoghi”, e utilizzando al meglio i nostri incerti saperi, dobbiamo realizzare i mutamenti che da tempo, e non solo da oggi, abbiamo sperato. Trovando il modo di attivare un po’ più di vita, di opportunità, di qualità urbana nei territori lontani dalle centralità, siano esse periferie delle grandi città, territori ultraperiferici in spopolamento, piccoli centri in via di marginalizzazione. Senza trascurare le nuove opportunità offerte dalla ricombinazione tra relazioni di prossimità e relazioni a distanza, e non dimenticando la necessità di mettere a disposizione alternative socializzanti all’implosione negli spazi domestici di tutte le attività.
Il Piano nazionale di ripresa e resilienza dovrebbe dedicarsi innanzitutto a questi temi, affrontandoli insieme alle indispensabili opere di manutenzione del Paese (Ruzzenenti M., 2021, Il territorio dopo il Covid (e prima del PNRR), commento alla curatela di Anna Marson e Antonella Tarpino). Siamo consapevoli che la direzione assunta è un’altra, ma riteniamo comunque utile argomentare, come abbiamo cercato di fare anche in questa occasione, come e perché le riflessioni intorno alla pandemia e ai suoi effetti evidenzino l’importanza e l’urgenza di un diverso approccio.