SOCIETÀ

Diritti, giustizia e sovranità: la Polonia in rotta di collisione con l'Europa

Polonia e Unione Europea sono di nuovo in rotta di collisione, e questa volta il punto di rottura sembrerebbe non soltanto più vicino, ma addirittura inevitabile. Al punto che si parla con una certa insistenza di Polexit, della possibilità che il Paese possa, un domani più o meno prossimo, staccarsi dall’Unione Europea. La scorsa settimana il Tribunale Costituzionale di Varsavia ha emesso una sentenza (su una mozione presentata dal premier Mateusz Morawiecki) nella quale si ribadisce la prevalenza della Costituzione nazionale su alcune norme europee. Quattro, per la precisione, ma quel che conta è il principio: è l’aver scritto nero su bianco che da parte della Corte di Giustizia dell’UE è in atto “un tentativo d’interferire nel sistema giudiziario polacco che viola il principio dello stato di diritto, il principio del primato della costituzione polacca nonché il principio del mantenimento della sovranità nel processo di integrazione europea”. In altri termini: secondo i giudici del Tribunale Costituzionale polacco (molti dei quali sono stati chiamati a ricoprire quel ruolo proprio perché seguaci del partito di estrema destra che guida il governo, “Diritto e Giustizia”, in polacco “Prawo i Sprawiedliwość”, PiS), gli organismi legislativi dell’Unione Europea stanno operando al di fuori dei limiti dei poteri conferiti dalla Repubblica di Polonia. Come se l’adesione al trattato di Maastricht non fosse di per sé vincolante. Il cuore del problema è proprio qui: nel rispetto dello stato di diritto (che comprende il rispetto delle minoranze, ma anche l’indipendenza dei media e della magistratura), che secondo Bruxelles è assai carente a Varsavia (e a Budapest). E nell’idea di vincolare la concessione dei fondi europei proprio al rispetto dei valori fondanti dell’Unione.

Una sentenza che divide anche la Polonia

Lo scontro in realtà si trascina già da tempo. La Commissione Europea ha già avviato una doppia procedura d’infrazione nei confronti della Polonia: la prima perché la legge sulla magistratura, con nomine pilotate e divieto di critica per l’azione del governo (approvata dal Parlamento polacco a dicembre 2019, entrata in vigore a febbraio 2020) mette a repentaglio l’indipendenza dei giudici ed è incompatibile con il principio del primato del diritto dell’Unione Europea. La seconda (lo scorso luglio) per aver istituito “zone libere dall’ideologia LGBTIQ” (qui una spiegazione e la storia dell’acronimo), scelta che aveva provocato la dura reazione  della presidente Ursula von der Leyen: «Le zone libere dall’ideologia LGBTIQ sono zone senza umanità. E non c’è spazio per loro nella nostra Unione Europea». Tre province polacche hanno poi fatto, recentemente, marcia indietro.

La sentenza del Tribunale Costituzionale, talmente grave nella sostanza da apparire un’aperta provocazione, scava un solco netto non soltanto con l’Unione Europea, ma anche all’interno della stessa Polonia, con i sovranisti da un lato (che rivendicano il “primato nazionale” su quello comunitario) e i filo-europei dall’altro (che puntano invece a rinsaldare il legame con l’Unione).  «Nessuna sorpresa, era una sentenza già scritta», ha commentato Michal Wawrykiewicz, avvocato della Free Courts Initiative. «Questa sentenza, dal punto di vista formale, segna il termine dell’appartenenza della Polonia all'Unione Europea perché mette in discussione i pilastri fondamentali del funzionamento della Comunità: ovvero il principio di lealtà delle autorità statali polacche all'UE e il principio del primato del diritto dell'Unione europea sul diritto nazionale. Senza di essa non si può essere membri della Comunità e operare nello spazio giuridico europeo. Questa è una sentenza politica, emessa da un tribunale fittizio». E’ bene ricordare che già nel 2005 (l’adesione della Polonia all’UE risale al 2003, ratificata da un referendum) la Corte Costituzionale polacca aveva stabilito che “il Trattato di adesione nel suo insieme non violava le disposizioni della Costituzione della Repubblica di Polonia”. Da allora il Trattato non è cambiato, mentre il governo polacco sì. 

La leva economica di Bruxelles

Ora le domande sono due: cosa può fare, in concreto, l’Unione Europea? E cosa accadrà in Polonia? Polexit? Oppure “PiSexit”, nel senso che il partito conservatore di estrema destra, sovranista, sarà costretto a fare un passo indietro, come hanno chiesto a gran voce domenica scorsa migliaia di manifestanti in decine di città polacche (centomila soltanto a Varsavia) scesi in piazza per “difendere” l’adesione all’UE? Partiamo dal primo punto: non c’è alcun dubbio che la Polonia (o meglio, il governo sovranista della Polonia) stia deliberatamente sfidando Bruxelles, alzando sempre più l’asticella dello scontro, calpestando il Trattato, ignorando i continui richiami, di fatto comportandosi (al pari dell’Ungheria di Viktor Orban) come un “corpo estraneo” all’Unione. Quindi, perché non espellerli? Perché l’allontanamento di uno stato membro non è previsto dal Trattato, se non per manifesta volontà del Paese stesso (procedura comunque non semplicissima, come si è visto per la Brexit). Si può invece sospendere il diritto di voto (articolo 7) “se uno stato viola gravemente e persistentemente i principi su cui si fonda l'UE”. Esattamente il caso di Polonia e Ungheria. Ma i costituenti non avevano previsto la possibilità della contemporaneità delle crisi, con due o più stati coinvolti: le decisioni, è scritto, vanno prese all’unanimità. E Polonia e Ungheria si proteggono a vicenda, votando no. Quindi manca lo “strumento giuridico” per mettere in un angolo i paesi ribelli. Per non parlare dell’opportunità di un passo così drastico (l’uscita dall’Unione porterebbe immediatamente Polonia e Ungheria sotto la diretta influenza, economica e militare, della Russia).

Ma Bruxelles ha altre opzioni, come l’apertura di una nuova procedura d’infrazione: in questo caso la Corte di Giustizia Europea può imporre multe pecuniarie fino alla cessazione delle violazioni dei Trattati. Se il Paese si rifiuta di pagare, la Commissione UE ha la facoltà di trattenere i soldi da altre forme di finanziamento. O di bloccarli del tutto, come sta accadendo per i piani straordinari per affrontare l’emergenza Covid: Polonia (57 miliardi di euro) e Ungheria non hanno ancora ricevuto fondi. L’Unione Europea può anche (e si tratta di una misura approvata a dicembre dello scorso anno) intervenire qualora si riscontrino carenze sullo stato di diritto “tali da incidere sulla sana gestione di bilancio”, come nel caso di tribunali nazionali non considerati indipendenti. Come scrive il Wall Street Journal: «Il governo polacco non ha più un sistema giudiziario sufficientemente indipendente per garantire che i fondi vengano spesi correttamente». Insomma, la leva economica sembra far presa anche laddove la norma giuridica non arriva. Tanto che, sull’argomento, anche il più sovranista dei governi diventa improvvisamente sensibile. Come dimostra l’appello, un po’ sfacciato, lanciato poche ore fa proprio da Polonia e Ungheria che hanno chiesto a quella stessa Corte di Giustizia Europea di annullare la norma che vincola i finanziamenti al rispetto delle norme sullo stato di diritto. «Non è un regime di condizionalità, ma un meccanismo per imporre una sanzione», ha protestato Sylwia Żyrek, un’avvocata che rappresenta il governo polacco. La Corte si pronuncerà sull’argomento: la sentenza è prevista il prossimo 2 dicembre. Ma la sfida ormai è lanciata. La presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen, ha dichiarato di essere "profondamente preoccupata" per la sentenza polacca, avvertendo che userà “tutti i poteri a sua disposizione” per far rispettare le leggi dell’Unione. Vera Jourova, commissaria europea per la trasparenza e lo stato di diritto, ha ribadito ancor più chiaramente: «Se non difendiamo il principio del rispetto delle regole nell’UE, l’intera Europa comincerà a crollare. Ecco perché dobbiamo reagire». Sulla stessa linea Piotr Buras, capo dell'ufficio di Varsavia del Consiglio europeo per le relazioni estere: «Se si permette che i principi fondamentali dell’integrazione europea vengano svuotati e ignorati, allora questa sarà la fine dell’UE».

Lo scontento dei polacchi

L’Unione Europea dunque, per far rientrare i paesi ribelli nel tracciato della legalità, userà soprattutto gli strumenti finanziari a sua disposizione (la Polonia, al di là dei fondi straordinari per l’emergenza Covid, resta il maggior beneficiario netto di fondi “ordinari” europei: soltanto nel 2020 le sarebbero spettati circa 12,5 miliardi di euro). Per fare un solo esempio: con l’accusa di aver ignorato l’ordine della Corte Europea di interrompere i lavori di scavo in una miniera di carbone “contesa” al confine con la Repubblica Ceca, la Polonia sta pagando una multa salatissima di 500mila euro al giorno (la sanzione resterà in atto fino alla pronuncia definitiva). Il mancato arrivo di questo flusso di denaro provocherà ripercussioni sulla qualità della vita dei polacchi, che infatti chiedono a gran voce, al partito di maggioranza (pubblicamente sostenuto dalla Chiesa), una ricomposizione della frattura. Domenica scorsa 26 giudici in pensione della Corte Costituzionale hanno rilasciato una dichiarazione congiunta nella quale contestano, in 10 punti, le “false dichiarazioni contenute nella sentenza, la sua giustificazione verbale e i commenti delle autorità politiche”. “Il verdetto – scrivono - ha causato grande preoccupazione pubblica a causa delle sue prevedibili conseguenze devastanti per la popolazione”. E lo scontento aumenta. Stando a un sondaggio appena realizzato da “United Surveys” per Dziennik Gazeta Prawna e RMF FM, il 66% degli intervistati ritiene che le possibilità per la Polonia di utilizzare i fondi dell'UE, compreso il Fondo per la ricostruzione per l’emergenza Covid-19, siano diminuite dopo la sentenza del Tribunale Costituzionale. Perciò la popolazione è scesa in strada, a partire dalla piazza del Castello di Varsavia, sventolando le bandiere europee e gridando lo slogan “Restiamo”: per protestare a gran voce contro il governo di destra, sovranista e isolazionista. Quattro le persone arrestate, tra le quali un ragazzo di 18 anni, Franek Broda, attivista pro LGTB e, peraltro, nipote del premier Morawiecki, che ha anche denunciato di essere stato preso a calci in testa dalla polizia (qui un filmato appena dopo l’aggressione). Il primo ministro, per ora, minimizza: «Che il governo voglia portare la Polonia fuori dall’Unione Europea, o fare una "Polexit", è completamente falso, una fake news», ha dichiarato lunedì scorso. Anche il presidente di PiS, Jaroslaw Kaczynski, continua a sostenere che la Polonia vuole rimanere nell’Unione Europea: «Ma la Polonia è uno stato sovrano. E l’interferenza dell’Unione Europea negli affari interni della Polonia deve finire». Tanto che proprio lui, Kaczynski, e non il premier, è finito nel mirino di Donald Tusk, ex presidente del Consiglio europeo, presidente in carica del Partito Popolare Europeo e ora a capo di “Civic Platform” (Piattaforma Civica), il partito liberal-centrista di opposizione, che ha “guidato” le proteste di piazza di domenica scorsa: «L’operazione pianificata da Jaroslaw Kaczynski per rimuovere la Polonia dall’Europa è iniziata a pieno ritmo» - ha sostenuto Tusk in un video pubblicato su Twitter. «Sappiamo perché vogliono lasciare l’UE: per poter violare impunemente le regole democratiche. Se rimarremo inattivi, nulla li fermerà». Ammesso che di Polexit si tratti, in questo caso, a differenza del Regno Unito, non sembra che la popolazione sia così d’accordo.

Dunque la Polonia sovranista appare oggi chiusa in un angolo. Perché l’Unione Europea non sembra disposta a cedere al ricatto.  Anzi, non è da escludere che inasprisca ancor di più le regole per accedere ai fondi comunitari. Anche il partito di governo “Prawo i Sprawiedliwość” sembra ormai di fronte a un bivio, con un’inflazione sempre più in salita (oggi al 5,8%, ma con una stima di +7% su base annua per dicembre 2021) e con la banca centrale che ha alzato i tassi d’interesse (da 0,1% a 0,5%: il primo aumento da 9 anni a questa parte) proprio nel tentativo di evitare ulteriori rialzi. Cifre che si tradurranno comunque in un aumento dei prezzi (e dei malumori) per la popolazione. Polonia e Unione Europea sembrano due auto, una di fronte all’altra, su una strada a una sola corsia: chi farà marcia indietro? Cosa sceglierà di fare il PiS? Insistere nel braccio di ferro? Magari portarlo fino al punto di rottura ostacolando ostinatamente, con il diritto di veto, importanti decisioni da assumere a livello europeo (ad esempio nella lotta ai cambiamenti climatici)? Difficilmente chiederà di indire un referendum, dal momento che, secondo un recente sondaggio, condotto dal quotidiano polacco Gazeta Prawna, l’88% dei cittadini polacchi (il 94% nelle grandi città) ha dichiarato di volere che la Polonia rimanga nell'UE. Comunque strade rischiose per i sovranisti al potere, sempre più isolati e in calo di consensi. Le prossime elezioni parlamentari sono previste tra due anni, nell’autunno del 2023: per anticiparle servirebbe una crisi di governo.

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