Senso di urgenza e responsabilità: questi i sentimenti dominanti nel corso della presentazione, tenutasi a Villa Lubin a Roma il 13 ottobre, dell’ultima edizione del Living Planet Report, il rapporto biennale curato dal WWF che offre un’istantanea delle condizioni della biodiversità mondiale.
Cala l’abbondanza delle popolazioni
A leggere il documento, in effetti, appare evidente perché questo senso di urgenza sia così diffuso: i dati contenuti nel rapporto, difatti, restituiscono un’immagine tutt’altro che confortante. Il rapporto presenta la stima aggiornata del Living Planet Index, un indicatore di grande rilevanza che mostra la variazione dell’abbondanza relativa delle popolazioni naturali di tutto il mondo, tenendo conto dei dati raccolti a partire dal 1970. «Per abbondanza relativa si intende non il numero di specie scomparse o in via di estinzione, né che la totalità delle popolazioni monitorate presenta un certo grado di diminuzione in termini di abbondanza» precisa durante l’evento di presentazione Valentina Marconi, ricercatrice alla Zoological Society of London (partner principale del WWF nella redazione del rapporto) e coautrice del Report; «si intende, invece, la variazione nell’abbondanza di una determinata specie all’interno di una comunità ecologica».
Ebbene, mettendo insieme i dati provenienti da numerosi studi condotti sul campo svolti su quasi 32.000 popolazioni di 5.320 specie in tutto il mondo (sono stati presi in considerazione soltanto i vertebrati, e cioè rettili, anfibi, uccelli, pesci e mammiferi), si è calcolato che l’abbondanza relativa sia calata del 69% a livello globale. Un dato impressionante, che raggiunge picchi ancor più preoccupanti in alcune regioni e per particolari gruppi tassonomici: infatti, la perdita di biodiversità non avanza in maniera omogenea nelle diverse aree del mondo. Le prestazioni peggiori sono segnalate nella regione che comprende America Latina e Caraibi, dove la biodiversità è in calo del 94%; seguono poi l’Africa (a proposito della quale bisogna però ricordare che abbiamo un numero piuttosto scarso di dati rispetto ad altre zone del pianeta), con una riduzione del 66%, e le regioni di Asia e Pacifico, che registrano un -55%. Tendenze meno marcate sono state riscontrate nel Nord America e in Europa e Asia centrale (rispettivamente, -20% e -18%). A proposito di queste due regioni, tuttavia, ricorda Valentina Marconi che «la minore drammaticità di questi dati potrebbe essere dovuta al fatto che, in queste aree, la gran parte della biodiversità potrebbe essere stata significativamente intaccata ben prima del 1970, quando hanno inizio le nostre serie temporali di riferimento».
Per quanto riguarda l’impatto della biodiversità su specifici gruppi tassonomici, il più in sofferenza è sicuramente quello dei vertebrati d’acqua dolce, per i quali si stima che l’abbondanza relativa sia diminuita in media dell’83% rispetto al 1970.
Estinzioni in impennata
Interessante è anche il partenariato con la IUCN (International Union for the Conservation of Nature): il gruppo di lavoro si è avvalso del Red List Index, vòlto alla valutazione dello stato di conservazione di circa 140.000 specie, per individuare le aree del pianeta in cui il rischio di estinzione è più elevato e per comprendere quali ne siano le cause principali. Come ha messo in luce durante la presentazione a Roma il professor Carlo Rondinini, docente alla Sapienza di Roma, sono sei le minacce più pressanti alla conservazione della biodiversità – tutte e sei di origine antropica. Causa ‘remota’ dell’attuale crisi ambientale è di certo il rampante aumento della popolazione, progredito a velocità crescente nell’ultimo secolo: «Negli ultimi cinquant’anni è raddoppiata la popolazione umana, e sono raddoppiati anche i consumi: il risultato è che la nostra impronta sulla biosfera è quadruplicata, con conseguenze che sono oggi sotto i nostri occhi», ha affermato Rondinini.
I principali fattori di riduzione della biodiversità, attivi in ogni parte del mondo laddove si svolgono attività umane, sono (in ordine di impatto): agricoltura, caccia e bracconaggio, deforestazione, inquinamento, diffusione di specie invasive, cambiamento climatico. Alla luce di queste evidenze è oggi aperto, all’interno della comunità scientifica, il dibattito circa la possibilità che sia già iniziata una sesta estinzione di massa: «Per quanto sia importante comprendere se un’estinzione di massa abbia già avuto inizio» afferma ancora Rondinini «quel che più conta è che la biodiversità si sta riducendo a vista d’occhio, e che, perciò, dobbiamo intervenire per ridimensionare i tassi di estinzione odierni, che hanno raggiunto livelli completamente innaturali».
🔴Crollo devastante per le popolazioni di vertebrati sul #Pianeta 🌍#LivingPlanet Report del #WWF: in 50 anni le popolazioni di mammiferi, uccelli, anfibi, rettili e pesci nel #mondo sono calate in media del 69%
— wwfitalia (@WWFitalia) October 13, 2022
👉https://t.co/UhN2q1U2Yv pic.twitter.com/fzDhD6FJBp
L'uomo nella natura
Sono ben degni di rilievo alcuni dei presupposti di questa ricerca, che ne hanno certamente determinato l’esito. Primo tra tutti – ha sottolineato, in apertura del convegno, la divulgatrice Barbara Gallavotti, che ha moderato la mattinata di lavori – la decisione di creare un gruppo di lavoro che comprendesse non solo diverse discipline e competenze, ma anche diverse provenienze geografiche, culture e sensibilità: hanno partecipato alla stesura del rapporto 89 esperti da tutto il mondo. Tale diversità si è rivelata un importante fattore di arricchimento per il Report, che ha potuto beneficiare di punti di vista regionali e approfondita conoscenza del territorio a livello locale.
La diversità è stata riconosciuta come elemento chiave non solo per la qualità della ricerca, ma anche per dare valore alle scelte politiche e istituzionali. Il rapporto riconosce pienamente l’importanza del coinvolgimento delle popolazioni indigene nelle iniziative di conservazione, affermando: «Lungi dall'idea coloniale di separare le persone dalla natura per preservarla – e dal concetto di incontaminato o deserto libero dall'influenza umana – gli approcci indigeni alla conservazione pongono regolarmente le relazioni reciproche persone-luogo al centro delle pratiche culturali e di cura». Preservare le conoscenze ecologiche tradizionali è di certo una strategia vincente, che si fonda su un vero e proprio cambiamento di paradigma teorico: il riconoscimento della coappartenenza di umanità e mondo non umano a un’unica, grande realtà, composta di parti interconnesse e strettamente interdipendenti.
Agire
Il rapporto, hanno sottolineato a Roma diversi relatori, mira non solo a offrire un resoconto – il più possibile preciso – dello stato di salute della diversità biologica globale, ma si ripropone anche di indicare soluzioni, di rispondere alla difficile domanda “che fare?”.
La ‘visione’ proposta da questo rapporto è quella di costruire una società nature-positive, cioè una società che modifichi radicalmente la propria attitudine nei confronti della natura, e che la consideri non più solo un bacino di risorse da sfruttare e un luogo nel quale abbandonare i propri scarti, ma ne riconosca il ruolo vitale per la società stessa.
Ebbene, come precisa Alessandra Prampolini, direttrice generale del WWF Italia, sono tre gli obiettivi che devono essere perseguiti con maggiore urgenza: «Fermare la distruzione degli habitat e realizzare l’obiettivo di proteggere il 30% della Terra entro il 2030; fermare la perdita di specie; dimezzare l’impronta ecologica dell’umanità». Sono azioni che puntano in una direzione comune: si tratta di attuare “una rapida trasformazione a livello di sistema” che coinvolga l’ambito economico, tecnologico e sociale. «Non si tratta solo di una visione, di una speranza per il futuro», prosegue Prampolini. «Sono centinaia le associazioni e gli organi istituzionali che stanno lavorando a un piano d’azione effettivamente realizzabile, che renda questa visione una realtà».
Il piano d’intervento dovrà coinvolgere la dimensione economica, quella ambientale e quella sociale, intimamente connesse l’una all’altra, come già riconosciuto nell’Agenda 2030. «Le diseguaglianze sociali ed economiche sono direttamente legate alla distruzione ambientale», ha ricordato Francesco Petrelli, responsabile delle relazioni internazionali di Oxfam Italia. «Il cambiamento culturale di cui abbiamo bisogno comprende il riconoscimento della piena dignità della natura non umana così come delle persone future. Riscoprire il valore dei beni comuni, e impegnarsi per la loro tutela, è un elemento essenziale di questa trasformazione».
Dobbiamo ricordare che l’interconnessione è un carattere fondante del mondo in cui viviamo, e che ognuna delle azioni che compiamo ha molteplici conseguenze. È quanto sostiene, nel suo appassionato intervento, anche Marco Tarquinio, direttore del quotidiano L’Avvenire, nel tracciare una linea di congiunzione tra le due grandi crisi che oggi l’Europa si trova a fronteggiare – quella climatica e quella bellica: «La guerra è un coacervo di armi di distruzione di massa, ma è anche un’arma di distrazione di massa dalla crisi climatica. Il fatto che quest’ultima sia passata in secondo piano nel discorso pubblico è una circostanza drammatica, perché la guerra contro l’ambiente è tanto grave quanto la guerra aperta in terra d’Europa, la centosessantanovesima guerra sulla Terra».
L’obiettivo che il Living Planet Report 2022 si propone di perseguire è, soprattutto, tenere accesa una luce sulla crisi della biodiversità, “l’altra faccia della crisi climatica”, evidenziando come realizzare un cambiamento sia possibile, se non verranno meno coraggio e responsabilità.
La presentazione del Living Planet Report a Villa Lubin, Roma, 13 ottobre 2022. Foto: Sofia Belardinelli