Foto: Ali Mammadli/Unsplash
Tra gli eventi estremi causati dal riscaldamento globale più allarmanti per la salute umana vi sono sicuramente le ondate di calore, di cui abbiamo avuto esperienza nel corso dell’estate appena conclusa. Le ondate di calore consistono nel persistere delle temperature al di sopra delle medie stagionali per periodi di tempo prolungati. Il corpo umano, la cui temperatura interna è regolata per via endotermica, è in grado di continuare a svolgere le proprie funzioni vitali solo fintanto che l’ambiente esterno non superi una soglia massima di temperatura oltre la quale il processo di termoregolazione diviene impossibile. Il principale rischio per la salute, in questi casi, è il colpo di calore, una patologia che si manifesta quando l’esposizione ad alte temperature si protrae nel tempo (tipicamente, già dopo 2-3 giorni). Lo stato patologico consiste in una forma di ipertermia (temperatura corporea troppo elevata, superiore a 40°C) che può portare a una situazione infiammatoria e, nei casi più gravi, a un’insufficienza multiorgano. Se non prontamente trattata, questa condizione può avere anche esito mortale, soprattutto nei soggetti più fragili.
Quando si studiano i limiti fisiologici della nostra specie alle condizioni ambientali, è essenziale considerare un parametro a volte considerato ‘collaterale’ per valutare le temperature atmosferiche, e che però contribuisce in modo sostanziale a determinare il grado di tolleranza a una condizione di caldo estremo: l’umidità.
Due studi pubblicati sulla rivista scientifica PNAS si concentrano proprio su questo parametro, spesso trascurato, per rivalutare il nostro limite di tolleranza al caldo. A tale scopo, viene adottata una particolare unità di misura della temperatura atmosferica, la environmental wet-bulb temperature, o temperatura di bulbo umido (Tw), che calcola la temperatura atmosferica prendendo in considerazione il grado di umidità nell’aria. Attraverso questo parametro, emerge che il limite di tolleranza del nostro corpo è decisamente più basso di quanto stabilito in passato, e che sia la temperatura ambientale sia il tempo di esposizione massimi sopportabili diminuiscono con l’aumentare dell’umidità dell’ambiente.
Studi precedenti avevano concluso che lo stress causato dal caldo divenisse impossibile da compensare a 35°C Tw. Sebbene questo fosse stato indicato come limite massimo di sopravvivenza, superato il quale diviene termodinamicamente impossibile mantenere la temperatura corporea normale di circa 37°C, analisi più recenti hanno dimostrato che lo stress ambientale da caldo diviene impossibile da compensare già ben al di sotto di questa soglia, a circa 31°C Tw. Quello di 35°C Tw sarebbe dunque da intendere come un limite “teorico”, che potrebbe essere considerato realistico solo in condizioni ideali: il soggetto esposto a questo livello di caldo dovrebbe essere all’ombra, a riposo e ben idratato, per poter resistere.
È preoccupante notare che questa temperatura è già stata superata, seppure per periodi di tempo limitati (nell’ordine di poche ore all’anno), in diverse parti del mondo, in particolare in regioni tropicali e subtropicali densamente popolate, dove dunque ci si sta avvicinando a grandi passi ai limiti di sopravvivenza.
In una nuova analisi delle conseguenze dell’aumento delle temperature sulla salute umana, il ricercatore statunitense Daniel Vecellio e i suoi collaboratori calcolano che il numero di regioni del pianeta e i tempi di permanenza al di sopra della soglia limite di vivibilità aumentano con ogni decimo di grado di incremento delle temperature medie globali. Le proiezioni consegnano risultati preoccupanti già nello scenario di aumento medio di 2°C rispetto all’epoca preindustriale. Già prima del raggiungimento di questa soglia di aumento, infatti, aree come la Valle dell’Indo, la Cina orientale, la costa del Golfo Persico e l’Africa subsahariana mostrerebbero temperature superiori a 35°C Tw. Qualora le temperature medie globali dovessero aumentare di 3 o 4°C rispetto alle medie preindustriali, queste stesse regioni si troverebbero a superare la soglia di sopportabilità per molte ore all’anno, e inoltre diverse altre aree si troverebbero in condizioni simili (tra queste, molte regioni del Nord e del Sud America una volta superati i 3°C, e l’Australia settentrionale e centrale superati i 4°C). Prevedibilmente, la situazione peggiora in modo considerevole ad ogni ulteriore grado di aumento.
The human body can only take so much heat. A study examines the likelihood of heat waves above the limit of human thermoregulation in different climate futures. The risk of widespread exposure to lethal heat rises sharply at 3 °C of warming. In PNAS: https://t.co/TKbRYydhjC pic.twitter.com/RJbXmYkgpq
— PNASNews (@PNASNews) October 16, 2023
Ancora una volta, sulla questione climatica si innesta un problema di giustizia: infatti, ad essere più esposti a tali condizioni climatiche estreme sono le persone che, per ragioni socio-economiche, sono già più vulnerabili. Come affermano nell’articolo i ricercatori, «Nel peggior scenario considerato, quello di un mondo che ha superato i +4°C, circa 2,7 miliardi di persone dovranno vivere per almeno una settimana all’anno condizioni ambientali diurne in cui lo stress da caldo sarà impossibile da compensare, 1,5 miliardi di persone vivranno un mese in tali condizioni, e 363,7 milioni di persone dovranno affrontare un’intera stagione (tre mesi) di caldo estremo potenzialmente letale».
Tutto questo avrà ricadute non soltanto sulla salute pubblica – si tratta, comunque, di una situazione inedita, che coinvolgerà un numero amplissimo di persone – ma anche sulla sicurezza idrica, alimentare ed energetica, e sulla possibilità di sviluppo economico in alcune delle regioni più popolose e più vulnerabili del pianeta.
I dati presentati da Vecellio e colleghi rappresentano al tempo stesso un segnale di allarme e una conferma.
L’allarme consiste nel fatto che, in un futuro ormai prossimo, sempre più vaste aree del pianeta potrebbero diventare, per lunghi periodi dell’anno, di fatto inabitabili, in quanto non più adatte alla sopravvivenza della nostra specie: alcune aree sperimenterebbero condizioni ambientali estreme per quasi tutto l’anno, come nel caso della città portuale di Al Hudaydah, in Yemen, in cui le temperature sarebbero superiori a 35°C Tw per 300 giorni all’anno nello scenario di un aumento di 4°C.
La conferma riguarda, invece, l’urgenza di prendere provvedimenti realmente efficaci per assicurarsi che si rispettino gli impegni presi con la ratifica dell’Accordo di Parigi nel 2015. Mantenere le temperature al di sotto di +2°C non è una scelta, ma un obbligo. Dal successo di questa misura, infatti, dipende in maniera diretta la vita di miliardi di persone, senza contare l’inimmaginabile destabilizzazione a livello sociale, economico e geopolitico che deriverebbe dallo spostamento forzato di miliardi di persone verso le regioni con climi più temperati.