SOCIETÀ

Sostenibile: che non sia solo una parola

Sostenibile. È una parola. 

A leggerla questa breve frase si può intendere in due modi. Detta, così, semplicemente può indicare che sostenibile è una parola, un aggettivo per la precisione, del vocabolario. Detta in modo più aggressivo sta ad intendere la difficoltà di capirla, di realizzarla nei suoi contenuti e via discorrendo. Quello che a Napoli si intende con «è ‘na parola». 

Qui è opportuno riferirsi all’aggettivo: a quello che nel 1987 fu utilizzato nel rapporto Brundtland sullo «sviluppo sostenibile» prodotto dalla Commissione mondiale sull’ambiente e lo sviluppo (World Commission on Environment and Development) e che prese il nome dall’allora premier norvegese Signora Gro Harlem Brundtland, che la presiedeva. 

Per questo motivo mi è sempre sembrato di dover riconoscere a quella Commissione il copyright sul significato di quell’aggettivo nelle sedi e nelle discussioni nelle quali si è parlato di sviluppo aggettivabile come sostenibile. Vale a dire che, come coniato da quella Commissione, «lo sviluppo sostenibile è uno sviluppo che soddisfi i bisogni del presente senza compromettere la possibilità delle generazioni future di soddisfare i propri». Aggiungendo che lo sviluppo sostenibile «è un processo di cambiamento tale per cui lo sfruttamento delle risorse, la direzione degli investimenti, l’orientamento dello sviluppo tecnologico e i cambiamenti istituzionali siano resi coerenti con i bisogni futuri oltre che con gli attuali». 

Inteso in tal modo «lo sviluppo sostenibile impone di soddisfare i bisogni fondamentali di tutti e di estendere a tutti la possibilità di attuare le proprie aspirazioni ad una vita migliore (...) Il soddisfacimento di bisogni essenziali esige non solo una nuova era di crescita economica per nazioni in cui la maggioranza degli abitanti siano poveri ma anche la garanzia che tali poveri abbiano la loro giusta parte delle risorse necessarie a sostenere tale crescita. Una siffatta equità dovrebbe essere coadiuvata sia da sistemi politici che assicurino l’effettiva partecipazione dei cittadini nel processo decisionale, sia da una maggior democrazia a livello delle scelte internazionali». 

Un importante e condivisibile obbiettivo che, però, negli oltre trent’anni dalla sua individuazione è rimasta solo una parola; un aggettivo del quale si è fatto grande uso e abuso intendendo con esso qualificare buona ogni azione purchè definita “sostenibile”.

E qui mi aiuta il mio essere napoletano che mi consente di utilizzare la seconda interpretazione di «è una parola» e cioè «è ‘na parola» perché tale è rimasto quel principio di intenti: una parola, punto e basta. 

Di più, e peggio, quella che sembrava una accettabile «soluzione» ai guasti ambientali provocati dalla crescita economica per il modo in cui si era realizzata, in realtà non ha avuto risultati tangibili a livello planetario.

E il «sostenibile» inteso dalla Commissione Brundtland è stato soprattutto inteso come «sopportabile». In Italia, certamente. Molto meglio in Francia dove quell’aggettivo è stato tradotto in «durevole» che più correttamente risponde al concetto iniziale e non si presta ad equivoci. 

Non è il caso dell’Alleanza Italiana per lo Sviluppo Sostenibile (ASviS) che dal 2017 organizza il Festival dello sviluppo sostenibile articolato sempre in più giorni e in più sedi cominciando da Napoli (22 maggio 2017) con un tema significativo: “Disegnamo il futuro, Cambiamo il presente”.

L’obiettivo è sempre quello di riflettere e indurre a riflettere operativamente su 17 obiettivi. 17 traguardi che l’ONU ha individuato da raggiungere entro il 2030. E poiché non intende cedere a tendenze superstiziose anche quest’anno il festival (itinerante) si articola in 17 giornate dal 21 maggio al 6 giugno quando si concluderà a Roma alla Camera dei deputati. Qui saranno presentati i risultati della riflessione maturata durante la manifestazione e si indicheranno i prossimi passi da intraprendere per portare l’Europa e l’Italia su un percorso di sviluppo sostenibile per rimarcare la trasversalità dell’Agenda 2030, che impone a tutti un cambiamento nelle priorità delle scelte per orientarle verso un futuro “sostenibile”. Un futuro che ha già da tempo gettato le radici nel presente e che, destinato alle generazioni future che vivranno in un ambiente in via di progressivo e non reversibile mutamento, dovrà dare un senso ancora più concreto al concetto di sostenibilità.

Intendo dire che i mutamenti imposti dal cambiamento climatico in atto rallentabile, contenibile ma non arrestabile, non consentiranno di tramandare all’altro paio di miliardi di persone che si accingono ad incrementare la popolazione terrestre, un ambiente di vita come quello nel quale viviamo oggi. Cioè la sostenibilità, nel senso di cui dicevo all’inizio mutuandola dalla Commissione Brundtland,  non è riproponibile “tal quale”. Al momento con le conoscenze attuali non è realistico ipotizzare una “resilienza” della Terra. Un insieme di azioni, cioè, capaci di riproporne le attuali (nemmeno tanto auspicabili) caratteristiche a fine secolo. Vale a dire per la data entro la quale dovrebbero andare “a buon fine” i propositi concordati dai 195 Paesi firmatari dell’intesa raggiunta a Parigi a dicembre del 2015 mirante a contenere l’incremento delle temperature terrestri entro i due gradi centigradi.

A meno di eccezionali risultati nel campo della ricerca scientifica e dell’innovazione tecnologica è difficile che ciò accada. Allora l’obiettivo, sin da ora, deve essere soprattutto quello di offrire “sostenibili” condizioni di vita in un ambiente modificato. Per esempio, per importantissimo esempio, nell’impostazione di una sostenibile produzione agricola capace di garantire la sicurezza alimentare e nella valorizzazione del patrimonio forestale anche come regolatore climatico (ne hanno discusso Lorenzo Ciccarese responsabile del settore agricoltura e foreste dell’ISPRA ed Enrico Giovannini portavoce dell’ASviS a “radio3scienza” il 20 maggio).

Insomma si tratta di compiti ardui: a livello globale e a livello locale. Dove per locale intendo l’Italia che si è impegnata a realizzare  sottoscrivendo l’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile. 

È un compito arduo perché agenda, come si sa, significa in latino “cose da fare” e le cose da fare sono molte perché molte sono quelle non fatte. Il che significa che c’è ancora da lavorare per tutti e diciassette  obiettivi in appena undici anni. E su problemi che, come si dice, fanno tremare le vene ai polsi: dalla sconfitta di fame e povertà alla disponibilità di acqua pulita per tutti; dallo sganciamento dai combustibili fossili alla lotta ai cambiamenti climatici; dalla qualità della vita in città alla protezione di flora e fauna; dalla istruzione alla giustizia all’eliminazione delle diseguaglianze e via elencando.

Sono tematiche di vitale importanza che dovrebbero caratterizzare la quotidiana agenda di vita. Tanto che, secondo un sondaggio Demos Pi e Osservatorio di Pavia realizzato per la Fondazione Unipolis, gia nel 2017 “le principali preoccupazioni degli italiani coincidevano con i temi al centro dell’Agenda 2030”. Al primo posto fra le preoccupazioni era la distruzione della natura, ma soprattutto, l’84 per cento degli italiani si dichiarava favorevole a politiche per lo sviluppo sostenibile.

Partendo da Napoli nella prima puntata del Festival si faceva uso di un un invitante slogan: “Che nessuno resti indietro”. Che è come dire armiamoci e partiamo.

Non è facile. È anche vero che “ad impossibilia nemo tenetur”. Ma è soprattutto vero che le edizioni del Festival sino ad oggi portate avanti hanno fatto registrare partecipazioni e risultati che confortano alla concretezza.

È anche importante che la prossima edizione sia “a cavallo” delle elezioni europee che, come è noto, coinvolgono 28 Stati. Cade perciò a proposito l’obiettivo del terzo Festival dello Sviluppo Sostenibile, di identificare le azioni chiave che le istituzioni europee dovranno intraprendere per rafforzare la propria capacità di guidare il vecchio continente e il resto del mondoverso un futuro più equo e sostenibile. 

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