La sigla dell'accordo di pace in Sudan. Foto: Reuters
Una tregua, un accordo firmato, una speranza che finalmente si riaccende dopo 17 interminabili anni di guerra, di violenze a fari spenti e di vittime: basti pensare al genocidio del Darfur, 300mila morti stimati e oltre 2 milioni di sfollati. Il Sudan tenta di voltare pagina con il “Comprehensive peace agreement”, firmato il 31 agosto scorso a Juba, capitale del Sud Sudan, dal governo sudanese e dai rappresentanti di alcuni dei gruppi armati (non tutti) protagonisti degli scontri dal 2003 a oggi in Darfur, South Kordofan e Blue Nile. Un passo (e un’occasione) di portata storica. Per il governo di transizione, nominato dopo la caduta del regime di Omar al-Bashir (nel 2019), è la realizzazione dell’obiettivo primario indicato dal primo ministro Abdalia Hamdok il giorno del suo insediamento: tregua con i ribelli armati per garantire stabilità politica e “un futuro di prosperità al paese”. Un paese segnato da una profonda lacerazione religiosa, etnica, linguistica, sociale, economica che ha diviso per decenni le regioni del Nord (arabe e musulmane, che storicamente in Sudan hanno in mano il potere politico ed economico) da quelle del Sud (popolate da africani e cristiani). Un processo di “arabizzazione” e di islamizzazione che ha provocato una frattura e spinto alla rivolta il sud del paese (risale al 2011 la secessione del Sud Sudan), innescando la durissima repressione dell’autorità statale.
Governo federale e libertà religiosa
Il “Comprehensive Peace Agreement” è composto da 8 protocolli che regolano il rapporto tra stato centrale e territori, instaurando una sorta di governo federale. Ai governi del Nilo Azzurro e del Sud Kordofan è riconosciuta una larga autonomia (e il 40% della ricchezza prodotta resterà a disposizione degli stessi territori). Sarà poi costituita una “Commissione nazionale per la libertà religiosa”, che dovrà vigilare sul rispetto dei diritti delle comunità cristiane del sud del paese. Infine, è prevista l’integrazione nell’esercito sudanese, “entro 3 anni e 3 mesi”, dei ribelli appartenenti al “Sudan People’s Liberation Army”. Nell’accordo di pace si sono inoltre poste le basi per definire le modalità di ritorno di rifugiati e sfollati. Il Segretario Generale delle Nazioni Unite, Antonio Guterres, si è congratulato con il governo sudanese per questo «traguardo storico», elogiando inoltre le parti presenti ai negoziati «per la loro determinazione a lavorare per l’obiettivo comune della pace».
Ma c’è un altro evento che lascia ben sperare: il 3 settembre scorso il premier sudanese ha firmato una seconda intesa (una dichiarazione di principio) con Abdel Aziz al-Hilu, capo del “Movimento di liberazione del popolo del Sudan” (SPLM-N), uno dei gruppi che non aveva firmato l’accordo di Juba. La dichiarazione, siglata ad Addis Abeba, capitale dell’Etiopia, al termine di un incontro durato 4 giorni, include l’impegno a incentrare la nuova costituzione sul principio cardine della “separazione tra religione e stato”, con il “rispetto del diritto all’autodeterminazione”. Se davvero così sarà, potrebbero essere presto cancellate dall’ordinamento sudanese tutte le norme ispirate alla Sharia, la sacra legge islamica, introdotte progressivamente a partire dagli anni 80, soprattutto con il regime imposto da Omar al-Bashir, salito al potere con un colpo di stato nel giugno del 1989 e arrestato dall’esercito, dopo mesi di violente proteste, nell’aprile del 2019. Scrive L’Observateur: «Il governo di transizione del Sudan ha deciso di separare la religione dallo stato. Mette così fine a 30 anni di dominio islamico nella nazione nordafricana: 30 anni persi senza alcun progresso».
Oltre la Sharia: i progressi del premier Hamdok
Il governo di transizione guidato da Abdalia Hamdok (un economista che ha lavorato in passato per le Nazioni Unite e che nel marzo scorso è sfuggito a un attentato alla periferia di Khartum) aveva già dato segnali di voler sciogliere i lacci della Sharia e di porre fine all’umiliazione, alla sottomissione sistematica della donna. A dicembre 2019 aveva abrogato la legge che vietava alle donne d’indossare i pantaloni o di partecipare a feste private (per le “colpevoli” erano previste frustate o l’arresto, nei casi più gravi). «Le leggi sull’ordine pubblico e la morale pubblica erano uno strumento di sfruttamento, umiliazione e violazione dei diritti dei cittadini, una violazione della dignità del popolo», aveva poi twittato Hamdok. «Mando un omaggio ai giovani, uomini e donne, del mio Paese che hanno sopportato gli orrori dell’applicazione di queste leggi». A maggio scorso ha vietato le mutilazioni genitali femminili, ritenuto il più importante rito di passaggio all’età adulta: chi continuerà a mettere in atto questa pratica (che finora ha riguardato la quasi totalità delle donne sudanesi, nove su dieci secondo l’ultimo report delle Nazioni Unite) sarà punito con 3 anni di carcere. Infine, lo scorso luglio, il governo ha annunciato altri passi avanti verso il rispetto dei diritti umani: cancellazione del reato di apostasia (chiunque insultava l’Islam o si allontanava dalla religione rischiava la pena di morte), abolizione della fustigazione pubblica, possibilità per i non musulmani di consumare alcolici. Cancellata anche la norma che prevedeva il divieto per le donne di viaggiare con i propri figli senza il “permesso” del marito.
La prudenza dei cattolici
Ma usare il condizionale è ancora d’obbligo. Come consiglia all’agenzia Fides monsignor Tombe Trille, Vescovo di El Obeid, capitale del Kordofan settentrionale, e presidente della Conferenza Episcopale di Sudan e Sud Sudan: «La gente da queste parti preferisce essere prudente: è la storia del nostro Paese dall’indipendenza del 1956 a oggi che ce lo impone, una lunga striscia fatta di guerra. Ma l’accordo di pace riguarda una grande parte del Sudan ed è molto importante che si sia finalmente giunti a una firma. Siamo tutti molto felici». Dubbi espressi anche dall’arcivescovo di Khartoum, Michael Didi Adgum Mangoria: «Non so se possiamo qualificare questo accordo come globale: so che alcune formazioni armate non erano d'accordo a firmare. Un accordo di pace diventa globale quando tutti coloro che sono armati aderiscono senza che nessuno ne sia escluso». Prudenza che si mescola alla diffidenza, alimentata da anni di sofferenze e di ferite, di promesse tradite. Scrive Ispi, l’Istituto per gli studi di politica internazionale: «Quella di Abdalla Hamdok appare una scommessa politica rischiosa ma necessaria, da cui potrebbe dipendere in concreto non soltanto la sua credibilità e quella delle istituzioni sudanesi, ma anche, in qualche misura, il successo stesso della transizione di potere». Scommessa rischiosa perché bisognerà vedere quale sarà la risposta dei sudanesi. La pace è senz’altro un obiettivo condiviso, ma lo strumento per perseguirla è la laicità dello stato, con tutto quel che ne consegue: una svolta brusca nelle tradizioni e nei costumi. E spesso non basta una legge per porre fine a un’usanza secolare. Valga l’esempio della “parità di genere”, che in molti stati africani è appena agli albori (il Sudan è al 166° posto su 187), e delle mutilazioni genitali: un rito fortemente difeso e sostenuto non soltanto dagli uomini, ma anche dalle donne.
Inondazioni e sfollati: il paese è in ginocchio
Dunque un buon inizio, in un cammino che dovrà comunque essere consolidato da futuri colloqui e ulteriori accordi tra le parti (anche perché se non verrà rispettato da una delle parti, se ad esempio i ribelli dovessero continuare a combattere, l’accordo andrebbe in fumo). Si vedrà. Ma in queste ore i sudanesi hanno anche altro a cui pensare, altre urgenze da affrontare. Le piogge torrenziali si sono abbattute con violenza sul paese, provocando esondazioni, vittime e devastazioni, con case crollate e interi villaggi spazzati via dall’acqua e dal fango. L’ultima stima della Protezione Civile sudanese parla di oltre 100 morti (migliaia i dispersi) e di circa mezzo milione di sfollati. Il Nilo Azzurro ha raggiunto i 17,57 metri, il suo massimo storico da quando sono iniziate le rilevazioni, oltre un secolo fa. Sabato scorso il Consiglio di difesa nazionale ha dichiarato lo stato di emergenza per tre mesi in tutto il paese, definendo il Sudan “un'area disastrata”. L’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (UNHCR) ha offerto assistenza, con il sostegno economico degli Emirati Arabi, inviando a Karthum 100 tonnellate di materiali per aiutare la popolazione a ripararsi: tende, coperte e teloni. Molti ritengono che il peggio debba ancora arrivare: la stagione delle piogge proseguirà fino a fine anno. Mentre aleggia lo spettro della grande diga “Gerd”, che l’Etiopia sta finendo di costruire proprio a ridosso del confine con il Sudan e che tante tensioni sta provocando proprio con Sudan ed Egitto, preoccupate che la gigantesca opera (145 metri di altezza, la più grande dell’Africa), possa ridurre la portata delle acque del Nilo. Due preoccupazioni opposte: inondazioni da un lato, siccità dall’altro. In una terra che non trova pace, anche quando la pace sembra a un passo.