Tommaso Marinetti in compagnia dell'architetto Alberto Sartoris. Foto: Archivio GBB / Contrasto
Democrazia futurista. Dinamismo politico, Milano, Facchi, 1919. Passi per la seconda parte del titolo, ma la prima chi se la potrebbe aspettare dal “nazionalismo rivoluzionario “di Filippo Tommaso Marinetti? È dal primo Manifesto del 1909 che l’inventore del Futurismo incendia le menti, i comportamenti, i linguaggi. Ha aderito con trasporto alla guerra, ha spinto a farla, l’ha combattuta e cantata. Sarà fascista e lo sarà sino alla fine, Repubblica sociale compresa. Ma intanto si compiace che i futuristi russi siano “tutti bolscevichi”. E non teme di puntare sulla roulette delle opzioni politiche che si susseguono nel magma movimentista del Diciannove. Sulla sconvolta scacchiera di un dopoguerra in tumulto balena persino un effimero Partito Politico Futurista. I materiali sono più o meno gli stessi, reimpastati a Fiume o a Milano, o in giornali - partito come “Roma futurista” (vi fa la sua comparsa Giuseppe Bottai, futuro capo della cultura fascista e grande speranza dei giovani, retrodatati proprio a queste speranze ‘rivoluzionarie’ del ’19). Faccio riassumere l’aria che tira a una esploratrice del futurismo, Claudia Salaris ,che interpreta Fiume in chiave situazionista come festa della rivoluzione e che ha raccolto e analizzato il pulviscolo di questa pubblicistica incandescente - i Marinetti, Carli, Settimelli, Vecchi - nella effimera concordia discors di futuristi, arditi, legionari, fascisti.
La composita miscela della nuova ricetta sociale futurista la condensa così: “Educazione patriottica del proletariato; lotta all’analfabetismo; scuole laiche: abolizione dell’insegnamento classico; insegnamento tecnico obbligatorio nelle officine; educazione sportiva; parlamento e senato tecnici; rappresentanza proporzionale; voto alle donne: abolizione dell’autorizzazione maritale; divorzio: svalutazione graduale del matrimonio per l’avvento del libero amore e del ‘figlio di stato’; riduzione degli effettivi nell’esercito; educazione militare nelle scuole; socializzazione delle terre; sistema tributario fondato sulla imposta diretta e progressiva; libertà di sciopero, riunione, organizzazione e stampa; abolizione della polizia politica: giustizia gratuita; massimo di otto ore lavorative; parificazione delle retribuzioni femminili con quelle maschili; previdenza sociale: costituzione d’un patrimonio agrario dei combattenti; riforma della burocrazia.” (Salaris, Storia del futurismo, Editori Riuniti, 1992, p.116)
C’è altro!? Quante cose! Tanto i programmi sono pezzi di carta - dirà qualcuno degli all’epoca più verbosi. Di quanto la realtà sia più spigolosa e resistente delle parole avrà la prova lo stesso Marinetti quando gli viene natural proporre lo “svaticanamento” dell’Italia alla prima riunione dei Fasci, a Milano, Piazza S. Sepolcro, il 23 marzo. Non era il primo a postulare questo improbabile ‘sbattezzo ‘universale. Anche un poligrafo come Umberto Notari predica da anni la “traslazione del Vaticano oltre le frontiere nazionali”. Marinetti deve però constatare che non è aria, nemmeno in quel “movimento sanamente italiano” allo stato nascente, e se ne allontana. Però il brodo di cultura è analogo e se uno va rivedersi quel libro dei sogni che è, nel giugno che segue, il Programma dei Fasci di combattimento, non fatica a rendersene conto. Tutto muove dal postulato dirimente della “valorizzazione della guerra rivoluzionaria” e a questo punto la cesura coi socialisti è assicurata. Dopo di che, si può procedere e rifar tutto alla grande: suffragio universale, voto alle donne e ai diciottenni, otto ore, milizia nazionale, imposta sul capitale a carattere progressivo: chi più ne ha più ne metta. Anche andando a spulciare la carta del Carnaro, ideata dall’ex-sindacalista rivoluzionario e prossimo leader tra i fuoruscitiantifascisti Alceste De Ambris, si potrebbe arrivare a definirla - prima di quella repubblicana del 1948 - ‘la più bella costituzione del mondo’. Solo che se le destre fanno il verso alle sinistre e parlano così, facendo squillare alto le trombe, che possono dire o fare le sinistre, per rimanerne all’altezza? Minimo, la rivoluzione! E infatti ne parlano. Ma non la fanno. E allora - anticipo gli eventi - le destre possono rientrare in se stesse, smettere recitativi e birignao d’epoca, e buttarsi dall’altra parte, la controrivoluzione. Ma questo significa, schematizzando troppo, bruciare le tappe. Noi ci arriveremo con più calma.