Fai l’uomo, non piangere!, Non fare la femminuccia, dimostra di essere un vero uomo! I maschi non piangono, combattono! I maschi non possono avere paura, non parlano di sentimenti, non si lasciano andare alle smancerie, non leggono poesia...Quante volte un ragazzo, in fase di crescita, si è sentito dire queste cose da un uomo adulto, da un padre o da uno zio riconosciuto come guida o punto di riferimento, e quante volte ha obbedito, soffocando lacrime, paure, insicurezze, e ancora, desideri e reali aspirazioni. Ne scrive J.J. Bola, autore, poeta ed educatore inglese, nel suo libro Giù la maschera (Einaudi Ragazzi, 2020): un saggio per lettori adolescenti, dai 15 anni, in cui viene affrontata una questione cruciale della società contemporanea, "essere maschi oggi".
Il libro si rivolge ai ragazzi e si offre come invito a rivelare la propria autenticità e le proprie reali aspirazioni, al di là di ogni pregiudizio o modello imposto. "Agli uomini viene insegnato a indossare una maschera - scrive J.J. Bola -, una facciata dietro cui nascondere ciò che proviamo realmente e le questioni che dobbiamo affrontare fin da piccoli. E dal momento che la società in genere è patriarcale, cioè favorisce gli uomini che occupano posizioni privilegiate, crea l’illusione che gli uomini non abbiano nessun motivo per soffrire. È una specie di arma a doppio taglio, una panacea perfida: significa che il sistema che avvantaggia gli uomini nella società è essenzialmente lo stesso che pone loro dei limiti, inibisce la loro crescita e finisce per condurli all’esaurimento". E ancora, Bola parla della necessità di scardinare "l’illusione di una maschilità intransigente e limitata, che rende i ragazzi e gli uomini incapaci di affrontare le proprie emozioni e li trasforma in aggressori e prevaricatori, intenzionali o no", e punta l'attenzione sulle soluzioni, "affinché gli uomini possano cominciare non solo a risolvere il proprio trauma personale e disimparare ciò che è stato insegnato loro come verità assoluta, ma anche a mettere in atto cambiamenti che permettano alla prossima generazione di avere una comprensione piena, chiara e profonda, di ciò che significa essere uomini".
Oltre gli stereotipi e i pregiudizi, è possibile riformulare l’identità maschile partendo dall’educazione di bambini e ragazzi? È possibile mettere in atto “strategie” di educazione e formazione più autentiche e orientate alla libera espressione di sé, svincolata dai modelli di mascolinità, fatti di forza, competizione, controllo? L'abbiamo chiesto ad Anna Oliverio Ferraris e Stefano Ciccone.
"Questa è la modalità patriarcale di allevare i figli maschi, tutt’ora presente in molti Paesi e anche nel nostro". La prima a rispondere è Anna Oliverio Ferraris, psicologa e psicoterapeuta, già docente di Psicologia dello sviluppo all’Università La Sapienza di Roma, autrice di numerosi saggi e del recente Famiglia (Bollati Boringhieri, 2020). "L’idea antica che anima questo stile educativo è quella di formare dei 'guerrieri' pronti ad andare in battaglia, a difendere la famiglia, la comunità, lo Stato; ma anche dei 'capi famiglia' che per fronteggiare le durezze di una società concorrenziale devono acquisire una certa durezza di carattere che consenta loro di affrontare l’aggressività dei concorrenti e di condurre con successo logoranti lotte quotidiane nelle aziende in cui lavorano. Alle donne invece, confinate tra le mura domestiche, era consentito di provare emozioni e sentimenti. Questo stile di allevamento dei bambini che differenzia nettamente i maschi dalla femmine è cambiato, o è in corso di cambiamento, in molti Paesi occidentali, non perché siano venute meno la competizione e l’aggressività in ambito lavorativo e sociale, ma perché ci si è resi conto che accantonare i sentimenti produce una mutilazione della personalità, con conseguenti incapacità a comprendere se stessi e gli altri, incomprensioni e conflitti con i figli, il partner, gli amici e spesso anche con i colleghi di lavoro. E tuttavia questo tipo di evoluzione non coinvolge tutti i nuclei familiari e tutti gli ambienti sociali cosicché in uno stesso Paese possono convivere stili educativi più evoluti e meno evoluti. L’Italia è a metà del guado. Solo innalzando il livello culturale del Paese si può sperare di sradicare i vecchi stereotipi e di diffondere uno stile educativo più autentico dove i sentimenti non vengono repressi, ma riconosciuti e orientati in senso costruttivo".
Il disagio maschile oggi ha molteplici forme e una di queste riguarda la relazione con la sessualità, elemento di tensione sia nella definizione dell'identità maschile (pensiamo, per esempio, al pregiudizio sull’omosessualità) sia nel rapporto uomo/donna. In una società dove il predominio maschile è evidente e indiscutibile, liberare l’uomo da un ruolo predefinito, da un modello imposto, può aiutare anche nella ridefinizione degli equilibri di genere per una società nuova, più empatica e giusta?
"Segni di cambiamento se ne vedono", commenta Anna Oliverio Ferraris. "Uno di questi, importante, è una maggiore partecipazione delle donne alla vita sociale e politica. Più in altri Paesi europei che in Italia, dove tuttavia sono molte le donne impegnate in attività extra domestiche, dall’istruzione alla sanità, dal lavoro in fabbrica a quello nei campi. Ci sono donne dirigenti d’azienda e donne sindacaliste, donne scienziate e donne che ricoprono cattedre universitarie, donne artiste e donne che si muovono agevolmente nel mondo degli affari. Un cambiamento di questo tipo viene però frenato, soprattutto in alcuni ambiti e zone del Paese, dal persistere della mentalità patriarcale, ben radicata in alcune famiglie e territori, sia nei maschi che nelle femmine. Donne che sono cresciute sottomesse all’uomo in una famiglia in cui i ruoli erano rigidamente predefiniti, possono riprodurre con i loro figli maschi e femmine lo stesso clima familiare e lo stesso stile educativo che hanno sperimentato da bambine. Infatti, se in alcuni contesti il cambiamento può avvenire nel giro di una generazione, in altri, invece, le spinte conservatrici hanno la meglio nel tenere insieme la famiglia così come i suoi membri l’hanno vissuta durante l’infanzia: un’età della vita in cui si assimilano modelli di comportamento, convinzioni, abitudini quotidiane e atteggiamenti senza ripensamenti. Tali modelli diventano parte integrante della personalità individuale come del gruppo di appartenenza e il modificarli richiede un 'lavoro' psicologico e culturale su di sé e sul gruppo di appartenenza".
Per Stefano Ciccone, biologo, dottore di ricerca in sociologia, autore di Essere maschi, tra potere e libertà (Rosenberg & Sellier, 2009) e Maschi in crisi? Oltre la frustrazione e il rancore (Rosenberg & Sellier, 2019) e fondatore di Maschile plurale, associazione di uomini impegnati contro la violenza maschile verso le donne e contro gli stereotipi di genere: "L’inclusione di bambine e bambini, donne e uomini in un ordine gerarchico che pone al vertice il maschile produce discriminazioni e disparità a danno delle donne, ma impoverisce e imprigiona anche la vita degli uomini. Corrispondere a una posizione di dominio pone, peraltro, gli uomini in una condizione di perenne precarietà della propria identità che richiede continue verifiche esterne - dalla performance sessuale e quella lavorativa - che spinge gli uomini a un diffuso conformismo. Questo non vuol dire affermare che siamo tutti sulla stessa barca, rimuovere differenze e disparità e opporre una sorta di vittimismo maschile alla necessaria assunzione di responsabilità rispetto al sistema di potere di cui si è parte. Vuol dire riconoscere che quel potere produce anche una miseria nelle nostre vite di uomini. Come osservava già Elena Giannini Belotti in un testo storico, dal significativo titolo Dalla parte delle bambine, questa affermazione si accompagna a tante altre ingiunzioni di cui gli uomini sono oggetto nella propria vita. Anche gli insulti e la ridicolizzazione hanno continui riferimenti ai modelli di sessualità e funzionano come un avvertimento a tutti gli uomini del rischio di perdita di identità e dignità per chi si discosti dal modello di virilità dominante. Anche in questo caso l’inferiorizzazione dell’altro, l’omosessuale, e la rappresentazione di una 'femminilizzazione' come ridicola perdita di autorevolezza, funziona come minaccia e ricatto che imprigiona la socialità, l’espressione delle emozioni e la stessa esperienza del proprio corpo da parte degli uomini. Riconoscere che l’inferiorizzazione delle altre differenze è un dispositivo di disciplinamento di chi appartiene alla 'norma' è fondamentale per affrontare questo nodo non solo in termini di rispetto dei diritti degli altri, ma nel riconoscimento che la mia libertà dipende dallo spazio che la libertà degli altri ha nel mondo. Non si tratta di proporre un nuovo modello maschile ma di rendere plurale l’esperienza degli uomini e di riconoscere spazio a ogni singolarità. Provare a spiegare a bambini e bambine che non c’è un solo modo di essere donne o uomini e che per affermare la propria identità e differenza, la conferma di essere, in questo caso, un maschio, non va ricercata nell’omologazione a tutti gli altri appartenenti al mio sesso, ma nella ricerca di un rapporto il più possibile autentico e consapevole con se stessi. La scuola è un luogo decisivo, ma non possiamo delegare alla scuola questo compito rimuovendo la necessità di cambiare noi stessi e la cultura diffusa. Serve un conflitto qui e oggi che rompa disparità e metta in discussione rappresentazioni stereotipate. Come potrebbe, altrimenti, una scuola espressione di una società sessista educare alla libertà e all’uguaglianza?"
E sulle possibili soluzioni, Ciccone non ha dubbi: "Dobbiamo provare a proporre agli uomini una rappresentazione diversa da quella dominante che racconta la nuova libertà e autonomia delle donne e la messa in discussione di ruoli fissi e gerarchici come una minaccia per gli uomini. Sempre più vediamo la narrazione di uomini depressi, frustrati e intimoriti da donne 'troppo libere', aggressive o intraprendenti. O di uomini disorientati e privi di riferimenti in una società che ha messo in discussione modelli, valori e ruoli tradizionali. Troppo spesso vediamo attribuire la violenza maschile alla perdita della tradizionale virtù virile dell’autocontrollo. Tutto questo alimenta in forme diverse una sorta di 'nostalgia' per un presunto universo armonico e 'naturale' perduto. Il cambiamento come un processo che priverebbe gli uomini di identità, dignità e sicurezza in se stessi. Al contrario, dobbiamo provare a far vedere agli uomini come il cambiamento possa rappresentare per loro un’opportunità per reinventare il proprio stare al mondo, la propria esperienza di paternità, il proprio rapporto col lavoro, la propria sessualità. Incontrare donne che mettono in gioco il proprio desiderio, scoprire spazi per vivere nella cura una nuova intimità con i propri figli, rompere il ruolo del breadwinner e l’intimazione a una sessualità autistica schiacciata sul dominio e sulla prestazione possono offrire agli uomini spazi di libertà".
Maschile plurale nasce dall’incontro tra gruppi di uomini sparsi per l’Italia già negli anni Ottanta e si consolida come associazione nel 2007.
"Nasce sin da subito coniugando la denuncia della violenza maschile contro le donne con una riflessione sui modelli stereotipati di genere - spiega Ciccone - Il senso è non fermarsi alla condanna della violenza (che spesso si risolve in una richiesta di risposte repressive contro 'gli altri' che salva la coscienza degli uomini 'per bene', ma riconoscere che questo fenomeno chiama in causa tutti. Non perché tutti gli uomini siano 'per natura' colpevoli ma perché tutti noi siamo immersi in una cultura che genera e giustifica questa violenza. Rompere col sistema della violenza di genere non può quindi risolversi in un’affermazione di 'estraneità' che ci autoassolva ma nell’impegno a trasformare quella cultura. Per questo Maschile plurale ha da sempre tenuto insieme la condanna pubblica della violenza maschile e il richiamo a un’assunzione di responsabilità degli uomini con un impegno nelle attività di consapevolezza nelle scuole, di formazione degli operatori sanitari e di polizia. Alla riflessione sulla violenza si è affiancato un lavoro di riflessione e di iniziativa pubblica su tutto l’universo delle relazioni tra sessi e generi: dalla sessualità alla genitorialità, dalla discriminazione dell’omosessualità alle discriminazioni nel mondo del lavoro, fino al nesso che oggi collega il sessismo con le spinte razziste e nazionaliste che attraversano le nostre società. Questo percorso ha sempre mantenuto due caratteristiche fondamentali: fondarsi su un confronto tra uomini non meramente razionale o politico-culturale, ma basato sullo scambio personale in piccoli gruppi di condivisione, in continuo dialogo con le donne, con le tante esperienze, diverse e plurali del femminismo e con il mondo lgbt+. Oggi credo che la sfida sia rendere questa esperienza più visibile, più capace di stare nello spazio pubblico, offrendo agli uomini un riferimento diverso da quello rappresentato dalla reazione frustrata, rancorosa e misogina che rischia di risultare dominante".