SOCIETÀ

Estensione del congedo di maternità. La spinta verso un cambiamento culturale?

Si sente molto parlare, ultimamente, della possibilità che venga esteso il congedo obbligatorio di maternità. Al momento, le neo-mamme hanno disposizione 5 mesi di assenza dal lavoro, dei quali possono usufruire interamente dopo il parto, o che possono iniziare ad utilizzare nel periodo precedente alla nascita del bambino, usando la formula 1+4 o 2+3.
L'ipotesi, al momento, è quella di prolungare il periodo di congedo a 6 mesi, riservando il 20% di questo tempo ai padri.
Cosa si può dire, allora, della attuale regolazione giuridica dei congedi in Italia rispetto agli altri paesi europei? In che modo una modifica del genere potrebbe agevolare i neo-genitori? Lo abbiamo chiesto alla professoressa Angela Toffanin, docente di sociologia della famiglia all'università di Padova.

Sembra che la crescente partecipazione femminile al mercato del lavoro negli ultimi anni abbia fatto aumentare l'attenzione alla questione della conciliazione tra famiglia e lavoro. Quali sono le principali politiche che sono state adottate a riguardo?

“È vero che l'occupazione femminile è aumentata in tutta Europa, ma è anche vero che la situazione in Italia è drammaticamente al di sotto della media. Qualcosa sta comunque cambiando perché, secondo l'ISTAT, la partecipazione dei papà alla vita domestica è in leggero aumento.

Negli anni Settanta e Ottanta, l'Italia ha pensato a delle politiche di conciliazione, come i congedi di maternità, gli asili nido, e le scuole dell'infanzia, che servivano ad inserire i bambini nel percorso scolastico ma anche a permettere ai genitori di poter lavorare. Possiamo dividere le politiche sociali in due grandi macro-gruppi: il trasferimento monetario, ovvero gli assegni familiari, i contribuiti legati alla maternità – ci sono quelli indirizzati alle situazioni di estrema povertà e quelli dedicati ai lavoratori e alle lavoratrici in proporzione al loro reddito – e poi una serie di politiche sociali come i servizi per l'infanzia, per le persone diversamente abili, e per gli anziani. Rispetto ad altri paesi, l'Italia ha investito molto nei servizi per l'infanzia negli anni Sessanta e Ottanta, ma poi è rimasta ferma lì per molti versi, anche se con grandi differenze tra nord e sud del Paese. Negli ultimi anni c'è stata una contrazione della spesa per il sociale, per cui i comuni riescono a finanziare di meno gli asili e devono inoltre ridurre i posti nelle case di riposo pubbliche o nei progetti per adulti non autosufficienti.

In Svezia, per esempio, funziona in modo diverso, perché i congedi sono genitoriali, non diversificati tra le mamme e i papà, e non esistono asili per bambini sotto l'anno, perché è previsto che fino a quel momento questi stiano con i genitori. In Francia, invece, ci sono gli asili per i bambini molto piccoli, ma sono distribuiti in maniera capillare sul territorio; al contrario dell'Italia, dove c'è una grande disparità di posti in queste strutture tra nord e sud”.

Quali sono i principali problemi, in Italia, delle politiche pubbliche e aziendali in termini di conciliazione tra lavoro e famiglia?

“Per quanto riguarda le politiche aziendali, spesso gli imprenditori dichiarano che la conciliazione tra lavoro e famiglia è una questione privata dei lavoratori e delle lavoratrici, per cui non dispongono politiche lavorative vantaggiose per i neo-genitori. Questo fa sì che il part-time sia raramente concesso e, se guardiamo alla dimensione volontaria, capita che in molti casi i lavoratori si debbano dimettere dei primi due anni di vita di un figlio perché dichiarano che le condizioni lavorative dopo la maternità siano inconciliabili con i ritmi familiari”.

Secondo il rapporto 2018 dell'ispettorato del lavoro, infatti, nel 2018, le dimissioni volontarie sono state del 24% in più rispetto al 2017. Tra queste, il 73% erano riguardavano le madri, e il 27.3% i padri.

“È richiesto un cambiamento culturale da parte delle coppie, ma anche dalle aziende. C'è poi da dire che ci sono alcuni tentativi, anche in uniformità alle politiche europee, di dare maggiori strumenti agli uomini per partecipare di più alla vita familiare, ma bisogna tenere conto che tra loro c'è una grande fetta che non usufruisce dei congedi obbligatori retribuiti di due giorni (che in alcuni casi sono sette). Questi giorni non sono previsti per tutti i tipi di contratto, ma spesso anche coloro che li hanno a disposizione non li sfruttano appieno. È giusto, quindi, che chi decide le politiche pubbliche e sociali cerchi di produrre un cambiamento culturale.

Certo, qualcosa sta cambiando, infatti gli uomini sotto i 45 anni dedicano più tempo alla cura dei figli, ma ce ne sono ancora tanti che non lo fanno. Molto, quindi, ricade nella scelta personale, che è in relazione con un contesto socioculturale. Alcuni uomini che hanno un lavoro a tempo indeterminato nel settore pubblico potrebbero richiedere anche loro le due ore per l'allattamento, perché hanno un contratto di lavoro che lo permette, ma non lo fanno o per resistenze che trovano sul posto di lavoro o per una loro impostazione mentale, una sorta di pudore”.

Estendere il periodo di congedo a sei mesi, quindi, riservando circa un mese al padre, potrebbe essere una riforma in grado di portare reali benefici per la famiglia e di produrre un cambiamento culturale, oppure sono altri gli incentivi di cui i neo-genitori di oggi avrebbero bisogno?

“Dobbiamo intanto aspettare di vedere come sarà formalizzata la proposta di legge di aumentare il congedo obbligatorio, perché da una parte potrebbe dare una spinta verso un cambiamento culturale e portare a una condivisione più equa dei compiti all'interno delle coppie, dall'altra, però, bisogna tenere conto che la vita dei bambini e dei soggetti che hanno bisogno di cura non si ferma a 6 mesi, per cui bisognerà anche vedere come funzioneranno le cose nei periodi successivi e se ci saranno dei dispositivi anche per gli anziani e i non autosufficienti. Il contributo degli uomini al lavoro di cura si limita, troppo spesso, alla cura dei figli piccoli e alle attività come il gioco le attività di socialità, mentre il loro contributo nella pulizia della casa o nell'aiuto agli anziani e ai disabili in Italia è ancora molto basso in tutte le fasce d'età.
Se questo aiuterà la società ad andare verso il cambiamento culturale che è richiesto, ben venga, ma non dimentichiamoci che i bambini e gli anziani richiedono molto più tempo delle risorse che sono disponibili ora. Quindi, oltre a studiare modalità di conciliazione entro i sei mesi, sarebbero utili anche delle politiche sia monetarie, sia in termini di servizi, che agevolino la cura dei figli anche nel periodo successivo”.

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