Lidiya Liberman in "Maternal"
Finalmente delle madri cattive. Siamo così asfissiati dalla melassa retorica che inonda l’idea di maternità, con l’apparato di pubblicità da Mulino Bianco, marketing della famiglia perfetta, estetica della dolce attesa, che un film come Maternal, coproduzione italo-argentina diretta da Maura Delpero, ci appare come una salutare abluzione di verità su un tema di complessità straordinaria, una condizione che può essere meraviglia e dramma, estasi e disgusto, a volte entrambe le cose, ma che l’arte non può astenersi da indagare nei suoi recessi più oscuri e nelle situazioni di disagio più lacerante.
Siamo in Argentina, in un convento di suore che è anche un hogar, rifugio destinato a madri loro malgrado: adolescenti in attesa di partorire o puerpere, provenienti da situazioni di abbandono e degrado difficilmente concepibili per chi ha il privilegio di vivere nella normalità. A dividersi una stanzetta con letto a castello da madri-bambine sono Fatima e Luciana, entrambe minorenni. La prima, incinta, è madre di Michael, bimbo che non ama e non odia: di animo mite, rassegnata a un destino incerto, accetta le regole di chi la ospita, ed è legata da un’amicizia a senso unico a Luciana. Questa, a differenza di Fatima, è ribelle, insofferente agli ordini e alla continua ricerca di un’opportunità per lasciarsi tutto alle spalle: compresa la sua bimba Nina, ostacolo alla libertà.
Luciana sfrutta l’arrendevolezza di Fatima per ottenere quello che vuole: un po’ di spiccioli, il silenzio che copre qualche trasgressione, soprattutto l’ascolto delle sue avventure nelle giornate di permesso (ama un ragazzo che vede come il suo salvatore, anche se l’amica la mette in guardia). Fin dalle prime sequenze, davanti allo sguardo della regista si spalanca con asettica franchezza un mondo disturbante, che inquieta eppure è così diffuso: quello di madri per caso senza vocazione né speranze, che passano i giorni a sognare un principe azzurro che non arriverà e trattano le loro creature, nel migliore dei casi, come ineluttabili seccature.
Mentre Fatima attende il parto e Luciana un'altra vita, al convento arriva suor Paola, novizia in attesa dei voti. Subito le ragazze ne avvertono la diversità: è giovane, dotata di una naturale dolcezza che dispensa equamente a madri e bimbi. Fatima ne è attratta, Luciana invece, ingelosita, la vede come un’intrusa. Quando Luciana, finalmente, fugge dall’hogar, Nina si lega fortemente a suor Paola, che ne ricambia l’affetto in modo sempre più intenso, arrivando a violare le regole che impongono un certo distacco tra suore e assistiti. Divisa tra un inatteso, debordante senso di maternità e il desiderio di prendere i voti, Paola vacilla. Ma, la conforterà la superiora, non c’è un modo solo di essere madre…
Con uno stile antiretorico dotato di sensibilità rara, Maura Delpero ci porta a esplorare un universo materno all’insegna dell’inversione rispetto alla nostra percezione tradizionale e mediatica. Sono madri senza desiderio né consapevolezza, risucchiate in un vortice troppo frastornante, che non baciano i figli, li sottopongono a piccole violenze (Luciana, sempre frustrata, fa esplodere il palloncino di Nina con la sigaretta), non sognano altro che scappare. Un capovolgimento di ruoli che porta questi bimbi senza amore, cresciuti troppo rapidamente, a diventare genitori delle loro madri immature (il piccolo Michael conforta Fatima, svenuta per le doglie, con la tranquillità determinata che ci si attenderebbe da un saggio). Senza indulgere a pietismi né giustificazioni, la regista ci introduce a una dimensione che ci respinge, ma cui dobbiamo volgere gli occhi: davvero intense le sequenze nella sala mensa, in cui madri apatiche e rancorose nutrono, senza carezze né gioia, bimbi che non conoscono calore umano.
Con la fuga di Luciana, il film sposta il nucleo dalla maternità negata alla maternità impossibile di suor Paola. Il cui amore viscerale per Nina, abbandonata dalla madre, si esprime attraverso sorrisi silenziosi, piccole attenzioni, abbracci improvvisi: le pulsioni che un bimbo avrebbe il diritto di attendersi da una mamma. Ma Paola, meravigliosa potenziale madre adottiva, si fa carico della terribile lacerazione tra scelta spirituale e carnalità dell’amore materno (Luciana, al culmine della gelosia, strappa a Paola il velo dal capo).
La scelta del soggetto di Maternal (in concorso al Bolzano Film Festival) non è casuale. La regista ha insegnato cinema per anni in un istituto religioso di Buenos Aires che accoglieva madri bambine. Se l’esperienza di vita è stata lo spunto per riflettere sul contrasto tra maternità rifiutata e maternità sublimata, la Delpero ha saputo ricrearne le sensazioni con un notevole lungometraggio d’esordio, giustamente segnalato tempo fa al Festival di Locarno. Certo, non privo di qualche sbavatura: inutilmente didascalica l’insistenza sul montaggio parallelo, a mostrare il contrasto tra l’anti-madre Luciana e la madre in spirito Paola, o tra la sensualissima festa da ballo delle baby-mamme e l’austero catechismo dei bambini. E la decisione finale di Paola andava forse espressa con maggiore sintesi.
Ma tra i meriti della regista, oltre all’aver ricreato un’atmosfera drammaticamente autentica, c’è la scelta delle interpreti: la superiora di Marta Lubos, l’ignava Fatima di Denise Carrizo, l’irredimibile Luciana di Agustina Malale, e Lidiya Liberman, che con sguardi e sorrisi dona ai silenzi di Suor Paola una credibilità toccante. Quanto ai bambini, sono ripresi con una acutezza che colpisce. Se finalmente, come pare, le sale riapriranno, Maternal meriterà una distribuzione all’altezza. Per regalarci un racconto sulla maternità che di solito non vogliamo ascoltare, anche se ci allargherebbe lo sguardo, e la mente.