SOCIETÀ

Non ci piace più il suono del silenzio: l'inquinamento acustico nelle città italiane

Nella società odierna – dominata da suoni e rumori -, i luoghi e i momenti di silenzio sono sempre più rari. Siamo sopraffatti dal rumore del traffico veicolare, di trapani e attrezzi da lavoro, dei passi e del brusio delle persone che attraversano ogni giorno i centri urbani; da ogni parte si avvertono suoni, stimoli uditivi che, ormai, fanno parte della nostra quotidianità e che quindi ci rassicurano, dandoci un senso di familiarità e protezione. Anche in casa, dove potremmo trovare la tranquillità e la quiete che fuori difficilmente riscontriamo, tendiamo a ricercare il suono: podcast, musica o tv continuamente accesa a tenerci compagnia. Il silenzio, infatti, è spesso percepito come un’assenza, un vuoto da colmare continuamente, per non sentire il rumore dei propri pensieri e del proprio io più profondo.

Tuttavia, il silenzio non è soltanto una privazione o una mancanza. I latini utilizzavano due verbi per definirlo ed il loro significato non era del tutto simile: il primo, tacere, indica un disciplinato stare zitto, l’interruzione imposta di un dialogo; il secondo, silere, descrive un silenzio ambientale o interiore, uno stare tranquillo, quieto: non è una negazione, ma l’affermazione di qualcosa. Dietro il vuoto che il silenzio sembra implicare, infatti, si nasconde uno spazio denso di significati: può affermare un bisogno, un dolore, una gioia; diviene eloquente di fronte a una domanda o a una preghiera; è assordante quando dice che non c’è più niente da dire. Il silenzio parla, esprime qualcosa, comunica, seppure in assenza di parole.

I latini utilizzavano due verbi per definirlo: tacere e silere

La sua importanza è riscontrabile anche nella musica. Ciò potrebbe sembrare un ossimoro, poiché le note sono suoni, e la musica è intesa, di norma, come un insieme di questi ultimi. Tuttavia, ogni brano musicale è costituito, oltre che da note, anche da pause, che hanno un’importanza pari ai suoni nella sua struttura. Come la punteggiatura in un testo, i silenzi in musica danno un particolare tono, un senso specifico a ciò che si vuole comunicare.

Anche le pause contengono emozioni, diventano portatrici del messaggio emotivo che l’artista intende veicolare. Di un silenzio foriero di emozioni parla Gianni Zanarini, nel suo libro Silenzio: qui si descrive un silenzio attivo, che muove il nostro flusso di pensieri suscitando ricordi ed emozioni. È il silenzio che separa i movimenti delle sinfonie, che i frequentatori di concerti sanno che non devono riempire di applausi: non sono intervalli né pause previste, ma è un silenzio emotivo, come se la musica fosse ancora in corso e continuasse a parlare e comunicare anche in assenza di suono.

A mostrare tutto il potere comunicativo che il silenzio può contenere è stato John Cage, eclettico musicista statunitense che, all’inizio degli anni Cinquanta del secolo scorso, ha composto il brano 4.33, per qualsiasi strumento o voce, che non prevede l’emissione di note, ma solo la scritta tacet all’inizio della composizione. Ad ispirare l’artista è stata probabilmente la sua visita alla camera anecoica dell’università di Arward: queste stanze – di cui si parla anche in questo articolo de Il Bo Live -, sono allestite in modo da essere totalmente isolate rispetto all’ambiente esterno, eliminando qualsiasi forma di eco. Nonostante la totale assenza di suono, la sensazione non è quella di un silenzio assoluto, poiché si continua a percepire il proprio battito cardiaco e la propria attività cerebrale. Il silenzio assoluto non è ascoltabile ed è quello che Cage ha voluto dimostrare con il suo brano: contiene sempre qualcosa, che sia un’emozione, un messaggio o un ricordo.

Eppure, sembra che oggi si tenda a mettere da parte il potere comunicativo che il silenzio porta con sé: la forma verbale silere è scomparsa, lasciando il posto a un tacere imposto, al vuoto dell’assenza di parole; perciò ne abbiamo paura e lo fuggiamo, circondandoci di suoni e rumori più disparati. In realtà, evitarlo non è difficile, anzi, privarsi del silenzio è diventato quasi inevitabile, poiché viviamo in contesti ricchi di continui stimoli sonori. Per questo motivo, da un po' di tempo si parla di inquinamento acustico che, in base alla legge 447/95, si definisce come l’introduzione di un rumore nell’ambiente esterno tale da provocare danni alla salute umana, agli ecosistemi o ai monumenti. Il rumore può essere dannoso perché, a differenza del suono, emette onde sonore irregolari e discontinue che possono provocare sensazioni uditive sgradevoli e fastidiose. Ovviamente, questa forma di inquinamento è maggiormente presente nelle città, dove il traffico stradale è particolarmente intenso. Il continuo rumore delle auto che attraversano i nostri centri urbani, infatti, è la prima e più impattante fonte di inquinamento acustico: clàcson o rumore di pneumatici sull’asfalto possono diventare pericolosi per la salute delle persone e per l’ambiente circostante. Anche i treni e le ferrovie – seppur considerati più sostenibili -, a livello acustico producono un’elevata rumorosità, che può contribuire a incrementare questa forma di inquinamento. Da non dimenticare il traffico aereo, le industrie e le attività di artigianato, oltre a quelle ricreative e domestiche: tutti questi fattori concorrono a rendere le nostre città ambienti in cui dominano caos e una continua frenesia. L’eccessivo rumore può provocare disturbi di vario tipo: problemi uditivi degenerativi e, in alcuni casi, sordità; scompensi extrauditivi, quali ipertensione, alterazioni del sistema nervoso, endocrino e immunitario.

L’ambiente rumoroso in cui viviamo, come si sottolinea in quest’articolo, è fonte di particolare stress per le persone con neurodivergenze, in particolare con ADHD o disturbo dello spettro autistico. Per loro questo contesto estremamente caotico diventa un ostacolo, una barriera che, purtroppo, è ancora lontana dall’essere abbattuta. Le quiet rooms – stanze in cui si può trovare tranquillità e silenzio -, sono ancora troppo poche, non abbastanza per dare vita ad una società che rispetti i bisogni di tutte le persone.

Ma le città italiane sanno “rispettare” il silenzio? Per rispondere a questa domanda dobbiamo analizzare i dati Istat facendo però una premessa. L’Eea, cioè la European environmental agency, ci dice che l’esposizione prolungata a rumore forte può causare problemi quali insonnia, stress, difficoltà nello sviluppo cognitivo e patologie metaboliche e cardiovascolari. Proprio per questo sapere qual è lo stato dell’inquinamento acustico nel nostro Paese non è un fattore di secondaria importanza. I dati sono del 2021, quindi non così aggiornati e soprattutto riguardano un periodo dove le attività erano ridotte a causa della pandemia da Covid-19. Nonostante tutto ciò, sono comunque allarmanti. Un esempio? A Firenze ed in altri 14 comuni capoluogo, il 100% dei controlli effettuati nel 2021 ha rilevato un superamento dei limiti contro una media italiana del 44,4%. La città con più misurazioni invece è stata Milano con 127, seguita da Roma con 62.

Oltre alle rilevazioni effettuate dall’Istat, ci sono anche tutti quegli esposti presentati dai cittadini in materia di inquinamento acustico nei comuni capoluogo di provincia o città metropolitana. La media italiana, in questo caso, è stata di 12,8 esposti ogni 100 mila abitanti, che in termini quantitativi significa che nel 2021 i cittadini ne hanno presentati oltre 2 mila. L’area con più esposti è stata il Nord-est con 18,2 ogni 100mila abitanti. Sassari, Siracusa e Ragusa  hanno tutte e tre avuto più di 40 esposti ogni 100 mila abitanti, mentre in valori assoluti la città con maggiori segnalazioni è stata Agrigento con 216.

Insomma nelle città italiane il silenzio non è particolarmente presente. E sappiamo che il silenzio non è solo un vuoto, un’assenza o una privazione; è, invece, denso di significati, pieno delle parole che non riusciamo a dire. È utile, perché può trarne giovamento la nostra salute, ed il nostro stile di vita può divenire più sano e sostenibile. Perciò, è importante recuperare il suo significato profondo, e ritrovarlo, per riappropriarci di una quiete di cui sempre più spesso siamo privi.

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